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E’ convinzione ornai diffusa che l’offerta politica nel nostro paese sia cattiva o perlomeno inadeguata. Una convinzione pesantemente ancorata, purtroppo, alla storia italiana, e che risulta confermata dalle vicende di questi giorni che hanno investito come un ciclone protezione civile, grandi aziende di telecomunicazioni, parlamentari, amministratori, fino alle regole per lo svolgimento delle elezioni. Per cercare di fare un passo avanti risulta sempre più necessario chiedersi in che misura in Italia una cattiva “offerta” politica sia influenzata da una cattiva domanda politica. Cioè: se la politica è “brutta”, se il nostro è un paese di ricchezza privata (quando va bene) e povertà pubblica, quanto questo chiama in causa noi cittadini? E cosa occorre fare per costruire una buona domanda politica che costringa l’offerta politica a mutare di segno?
Su questi temi abbiamo invitato a ragionare Giuseppe De Rita, sociologo “visionario”, presidente del Censis: “Credo che bisogna innanzitutto capire cosa sia diventata oggi l’offerta e la domanda politica. Il processo fondamentale al quale abbiamo assistito in questi ultimi anni è stato quello che ha portato a una concentrazione, verticalizzazione, personalizzazione e mediatizzazione del potere. Lo definirei il ciclo della decisionalità, che è cominciato con Craxi negli anni ottanta. Lo schema grosso modo è questo: per decidere rapidamente e senza eccessive mediazioni occorre concentrare il potere; ma per far questo occorre verticalizzare e personalizzare, e per personalizzare il potere occorre mediatizzarlo, cosa per la quale naturalmente occorre anche molto denaro, ed è su questo che Craxi, com’è noto, è scivolato”.
Quali effetti hanno questi processi sulla buona o cattiva politica?
De Rita Effetti molto profondi, perché in questo schema non c’è più spazio per il tradizionale rapporto tra domanda e offerta politica.
In che senso?
De Rita Nel senso che la politica diventa spettacolo. Cosa vogliono i cittadini? Una politica di intervento, progettazione, programmazione e invenzione o invece si accontentano dello spettacolo mediatico? Le emozioni non arrivano più non dico dalla piazza, ma dalla lotta politica. Vengono invece dallo spettacolo: si aspettano i giornali per leggere con ansia i testi delle ultime intercettazioni o gli ultimi scandali e così il gioco antico e fondamentale della politica finisce. Non si fa più offerta di politica ma offerta di spettacolo. Lo fanno tutti: non solo Berlusconi, ma anche i suoi più accesi contraddittori. Il Fatto e Repubblica ne sono un esempio: tre o quattro pagine al giorno di intercettazioni e retroscena dei quali la gente è ormai letteralmente innamorata. Insomma: domanda e offerta di politica sono cadute insieme e al loro posto vince l’offerta di emozioni mediatiche.
Cosa occorrerebbe fare, stante questo schema, per migliorare la domanda politica, con le conseguenti ricadute positive sull’offerta?
De Rita Ci sono due strade, da percorrere entrambe. La prima è la strada della “visione”, della capacità di indicare scenari futuri. È la strada di Obama e Sarkozy, oggi, e di Kennedy ieri. In società molto spezzettate come le nostre la visione è l’unico modo per dare senso politico al proprio agire. I cittadini, i “coriandoli”, come li chiamo io, hanno bisogno di sapere chi sono, perché stanno insieme e per andare dove. L’altra strada è quella del fare.
L’ideologia berlusconiana?
De Rita Assolutamente no. Berlusconi se ne è apparentemente impossessato ma per fare altre cose. Prendiamo, solo per fare un esempio, la sua strategia in materia di protezione civile. Il ragionamento del Cavaliere è questo: la gente chiede alla politica di realizzare dei risultati. Quali meccanismi ho per rispondere a questa richiesta? Lo schema è sempre lo stesso: concentrazione del potere in un singolo organo (la protezione civile), verticalizzazione (l’enorme potere di ordinanza), personalizzazione (in questo caso la figura di Bertolaso) e mediatizzazione. Il premier ha giocato su questi tre tasti per produrre non già una vera politica del fare, ma per dare una parvenza di risposta a una propria concezione della domanda sociale. Siccome c’è stato il terremoto, qualche cosa bisogna farla. Ma cosa? Non c’è “visione”, in questo modo, ma l’opposto: facciamo qualche cosa, qualsiasi cosa, ma facciamola.
Come andrebbe rideclinata, allora, una virtuosa politica del fare. Come “disintossicare” questa parola abusata?
De Rita Bisogna avere il coraggio di dire che si può “fare” senza concentrare, verticalizzare, personalizzare e mediatizzare la Protezione civile – per rimanere all’esempio di prima – ma con uno sforzo collettivo in cui assessori, sindaci, presidenti di Province si danno da fare insieme. Quindi, io vedo solo due strade percorribili: la visione e il fare collettivo.
È probabile che nella scarsa propensione italiana per il bene pubblico giochi un ruolo importante la scarsa fiducia verso le istituzioni. In un suo libro di qualche anno fa (Il regno inerme. Società e crisi delle istituzioni) lei fa derivare questa delegittimazione dalle origini dell'unificazione italiana, nella distanza fra unità politica e amministrativa. Può spiegarci meglio questo concetto, molto attuale nel momento in cui ci apprestiamo a celebrare i 150 anni dell’unificazione?
De Rita L’unità italiana è stata realizzata perseguendo due strade. La prima è stata quella dei grandi interventi unificanti di struttura : le strade, le ferrovie, le poste, la scuola. La seconda è stata quella dell’unificazione amministrativa: tutto quello che accadeva in Italia, dalle Alpi alla punta della Sicilia, andava regolato con atti amministrativi uguali.
Queste due novità hanno creato una burocrazia di scopo nelle Fs, nelle poste e nella scuola, e una burocrazia di base addetta all’atto amministrativo unico. Il punto è che questi due elementi sono entrati entrambi in profonda crisi. Prendiamo la burocrazia di scopo. Ormai gli scopi collettivi possono essere gestiti in maniera diversificata, anche attraverso il mercato: vale per la scuola, le poste, le ferrovie. E questo crea frustrazione tra gli addetti, che sentono di aver perso una legittimazione storica. Per intenderci: un tempo il postino che svuotava cassette in giro per i paesi unificava l’Italia, oggi non più. Stessa frustrazione tocca ai burocrati dell’atto amministrativo unico, che hanno ben inteso come in una società molto diversificata qual è la nostra l’atto amministrativo non può essere lo stesso per tutto il territorio nazionale. Trattare l’apertura di un plesso scolastico in Val d’Aosta è ben diverso che farlo in Sicilia. Se ci si pensa bene, le tante illegalità si spiegano in parte anche così: il funzionario che ha tradito le regole magari nella sua ottica lo ha fatto per adattare l’atto amministrativo alla sua particolare realtà. Un tempo il piemontese che lavorava alla Corte dei Conti a Roma o l’altro che andava a fare il prefetto a Caltanissetta avvertiva questa urgenza politica, il suo importante ruolo storico di unificatore. Oggi che tutte le realtà – federalismo o meno – sono disunificanti, il funzionario pubblico dice: e io che ci sto a fare? È da qui che si può capire l’origine di quello che ho chiamato il “tradimento dei chierici”.
Altra cosa rispetto al fannullonismo brunettiano…
De Rita Certo, la mia polemica con Brunetta è proprio su questo. La scarsa affezione al lavoro nasce da questo. Le nostre istituzioni sono nate per unificare l’Italia. Finita questa mission, esaurita la spinta risorgimentale, non siamo riusciti a sostituirla con un’altra. È così che si crea quel vuoto, il “regno inerme” appunto.
Alla crisi della politica è strettamente collegato il tema della crisi dei partiti. Una crisi che spazia dal partito “marketing” berlusconiano all’assenza di identità del Pd. L’impressione è che la difficoltà dei partiti e dei corpi intermedi essenziali per una compiuta democrazia sia un po’ l’effetto e insieme la causa della cattiva politica che ci tocca. Come se ne esce da questa contraddizione?
De Rita La funzione del corpo intermedio è quella di realizzare connessioni tra dimensione alta e bassa. Vale per i sindacati, per le associazioni padronali, per i partiti. Solo che a un certo punto questi soggetti hanno pensato che andare verso l’alto conta paradossalmente sempre di meno e quindi si sono indirizzati verso il basso, verso il territorio. La partecipazione alla discussione politica, l’andare verso l’alto, è diventato fatto d’opinione. I leader dei sindacati, degli industriali, dei partiti sono ormai grandi e ascoltati opinionisti ma non fanno quasi più rappresentanza di interessi; contemporaneamente, i dirigenti e quadri intermedi vanno verso il territorio. Non è un caso che il partito che finora è meglio riuscito a difendersi è la Lega Nord, che altro non è che un sindacato di territorio. A parte qualche idea di secessione o il federalismo, non ha nessuna visione, né cultura filosofica o politica. Tra i sindacati, la Cisl da anni lavora sul territorio e la dimensione verticale delle filiere merceologiche è progressivamente sfumata nella sua struttura. Fa la stessa cosa che, sul piano politico, fa la Lega. Il risultato è che i corpi intermedi sono sempre più affetti da questa zoppia: non si resta più, appunto, intermedi ma si diventa territoriali; non si guarda più verso l’alto, ma verso il basso, dove ci sono gli interessi e il consenso.
È la politica dei governatori…
De Rita Esattamente. Emergono i cacicchi. Loiero e De Luca, per esempio, non hanno una dimensione “alta”. Lo stesso Vendola ha vinto le primarie avendo per anni coltivato il rapporto verso il basso, non verso l’alto. Potremmo dire: società barese vs società romana dalemiana.
Per lei questo è un aspetto positivo o negativo?
De Rita Per abitudine non do giudizi, ma mi limito ad analizzare e descrivere fenomeni. Tuttavia è indubbio che questi processi comportano una riduzione della dimensione intermedia. Il partito confederale, il partito dei cacicchi, sembra apparentemente la vittoria della dimensione intermedia, ma io credo che invece possa diventare un elemento ulteriore di crisi futura. E questo per un sostenitore storico dei corpi intermedi quale io sono è un giudizio.
Insieme a Bonomi lei è stato il teorico dello sviluppo locale. Perché secondo lei questi strumenti hanno fallito nel costruire dal basso una domanda e un’offerta di buono sviluppo, locale ma non localistico?
De Rita Lo sviluppo locale, con i patti territoriali e i contratti d’area, fu concepito come uno strumento per trasformare il Sud da soggetto di domanda a soggetto di responsabilità diretta. Per quarant’anni la periferia meridionale era stata abituata a chiedere, e tutta la classe politica si era adattata a gestire questo tipo di domanda. Il politico del paesino andava dal capo collegio politico, gli diceva, che so, che serviva un asilo nido; questi incaricava un amico progettista e con la proposta si faceva finanziarie dalla Cassa del Mezzogiorno. La funzione del capo politico era quella di semplice convettore della domanda sociale. Il risultato fu il clientelismo più bieco e senza alcun frutto positivo. La scommessa dei patti territoriali era un’altra. Alla società meridionale si diceva: non dovete più andare a chiedere i soldi; partite dal progetto e poi sul progetto complessivo chiedete il finanziamento, con un organo di gestione del patto che ha la responsabilità di seguire tutto l’iter. In questo modo la comunità diventa responsabile del progetto.
E cos’è successo?
De Rita È successo che per ragioni giuridiche, magari anche giuste, si è sottratta al Cnel la responsabilità di seguire i patti. La responsabilità tornò al ministero del Bilancio che, indovini un po’, aprì uno sportello dicendo: chi vuole i soldi venga da noi. E così si è riproposta la vecchia logica, in sei mesi il numero di patti è più che triplicato, grazie al tam tam dei partiti che esortava a fare progetti ed è tornata la logica del cacicco locale che “rimedia” i soldi. E la domanda è ridiventata povera, banale. La moltiplicazione dei soggetti di domanda che vanno col cappello in mano a chiedere i soldi è stata la tragedia della fine degli anni novanta.
Nel presentare l’ultimo Rapporto del Censis lei ha detto che “il futuro, con tutte le sue incognite, si affronta costruendo un ‘soggetto collettivo’. Cosa intende per soggetto collettivo?
De Rita Nel nostro paese abbiamo vissuto oltre quarant’anni nel segno della soggettività individuale. Quattro decenni caratterizzati dal primato del soggetto. Il ciclo, grosso modo, è cominciato nel ’62, con l’intervento di don Milani sull’obiezione di coscienza: la libertà del soggetto individuale è più forte della norma giuridica statuale che impone il servizio militare. È su questo filone che si collocano i referendum sull’aborto e sul divorzio. Un grande ciclo, che ha prodotto anche, per esempio, l’aumento fortissimo dell’imprenditorialità individuale: non avremmo cinque milioni di imprenditori in Italia, oggi, senza questo clima di forte soggettività. Va detto che l’idea di un fare collettivo che però facesse leva sulla spinta individuale c’era stata già con De Gasperi nel dopoguerra quando diceva: rifatevi le case come erano prima e dove erano prima; poi passate al Genio civile che vi rimborsiamo. Insomma, non mandava la Protezione civile! Cosa succederà ora? Si continuerà in questa direzione oppure ci sarà un mutamento epocale, vale a dire s'incomincerà la faticosa ricerca di una soggettività collettiva?
Personalmente credo che il ciclo del primato del soggetto sia in declino, un declino che sarà a mio avviso accentuato dalla crisi d’immagine del presidente del Consiglio, che ha avuto la scaltrezza e la furbizia di diventare l’interprete “a oltranza” di questa soggettività, spingendola addirittura fino al libertinismo. Dopo la fine del berlusconismo, dunque, ci troveremo a interrogarci su quale futuro ci aspetta: rilanciare una soggettività individuale o, come io credo, pensare a una soggettività collettiva? I cicli storici sono lenti a partire, la mia dunque non è un’indicazione per la politica d’oggi. Tuttavia penso che occorra prepararsi a questo mutamento.