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Ieri mattina, 22 marzo 2016, alle 7.51, due attentatori suicidi – i fratelli Khalid e Ibrahim El Bakraoui – si sono fatti esplodere all’aeroporto di Bruxelles, nei pressi della biglietteria della American Airlines. Poco più tardi, alle 9.11, un’altra esplosione ha fatto saltare un treno della metropolitana di Bruxelles, in partenza dalla stazione di Maelbeek verso quella di Arts-Loi, entrambe nel quartiere delle istituzioni europee. Ventotto ore dopo la prima esplosione, il bilancio delle vittime è di almeno 31 morti e 250 feriti, molti dei quali in modo grave.
Ma questa è una non-notizia, direte voi. Non c’è nulla di nuovo, lo sapevamo già. Tutto il mondo lo sa. È vero, tutto il mondo lo sa. Non c’è nulla di nuovo, nulla di originale, nulla di intelligente. È davvero una non-notizia. Ma provateci voi, in queste condizioni, a dire o a scrivere qualcosa che non sia banale.
La stazione della metro di Maelbeek si trova a 275 metri in linea d’aria dalla sede della Commissione europea. A 335 metri dal portone principale del Consiglio dell’Unione europea. A 550 metri dal Parlamento europeo. A 675 metri dagli uffici dell’Inca Cgil di Bruxelles (e questa davvero è una non-notizia). A 1.000 metri dalla sede del Governo belga. La stazione della metro di Maelbeek si trova a 2.950 metri dalla stazione ferroviaria Bruxelles Midi, dalla quale, in un’ora e ventidue minuti, si raggiunge Parigi, in un’ora e quarantasette Colonia, in un’ora e cinquanta Amsterdam, e in due ore e tre minuti Londra.
La stazione della metro di Maelbeek. Un altro di quei nomi che i giornalisti stranieri dovranno imparare a pronunciare (strano come il nome Maelbeek somigli a Molenbeek). Insomma, è stata colpita la capitale dell’Europa, non quella del Belgio.
“Bruxelles n’est plus qu’une sirène”, scriveva ieri mattina Béatrice Delvaux su Le Soir, il principale quotidiano francofono in Belgio. “Bruxelles è solo una sirena”. Ambulanze, vigili del fuoco, polizia, auto civetta, luci lampeggianti, ululati. Il rumore è continuo, viene da dovunque, passa attraverso la città come una ferita aperta. La gente si ferma, guarda, stordita. Abbiamo tutti gli occhi vuoti. Tutti sappiamo che è vero, sappiamo che sapevano, sappiamo anche che sapevamo. Che era una cosa che poteva, che doveva accadere.
Oggi invece Bruxelles è un grande silenzio. È una città senza parole. Siamo tutti, come dire, tesi, sbigottiti, emozionati, spaventati. Arrabbiati. C’è una calma surreale, rotta soltanto, ma di rado, da qualche sirena ancora. Come fosse un reperto auditivo della giornata di ieri.
Nel mio ufficio sono solo, non c’è nessuno. So che i miei colleghi sono tutti sani e salvi, ma non so dove siano. Pochi minuti fa sono sceso nel piccolo supermercato qui sotto il nostro ufficio per acquistare un succo d’arancia e un pacco di biscotti. Ci hanno chiesto di fare un minuto di silenzio. Tutto il Belgio ha fatto un minuto di silenzio oggi alle 12. Ma tanto era già silenzio prima, e dopo anche.
Ieri, siamo stati tutta la giornata incollati a internet, alla televisione, alla radio, al telefono. Un bombardamento continuo. No, scusate, non volevo usare quella parola. Ieri, siamo stati tutta la giornata ad ascoltare i bilanci dei morti e dei feriti. 10 morti. Poi 11. Poi no, un solo morto. Poi 15 morti e qualche ferito. Poi tanti morti e tanti feriti.
Con le lacrime agli occhi, lacrime di paura, di tristezza, di emozione, ma anche tante lacrime di rabbia, guardavamo e ascoltavamo i titoli dei giornali e dei telegiornali. Sconcertante la differenza tra i titoli dei giornali belgi e italiani.
Le Soir: Attentati di Bruxelles, ecco le foto dei sospetti. Tra 24 e 34 morti dopo il duplice attentato terrorista.
La Libre : Attentati di Bruxelles, la foto dei sospetti. Lo Stato islamico rivendica gli attentati. 34 morti e almeno 187 feriti.
La Repubblica: Bruxelles sotto attacco. Bimbi in lacrime. Gli abbracci dei sopravvissuti. Passeggeri sconvolti. Città impazzita.
Il Corriere della sera: Belgio, le foto del terrore. Panico in metrò. I sopravvissuti. Urla e sangue. Feriti coperti di polvere e corpi in terra. Scene da 11 settembre. Distrutto lo scalo di Zaventem. Scene da incubo, era un inferno. Passeggeri in fuga dal terminal. Corsa disperata fuori dall’aeroporto. Terrore e passeggeri in fuga. Lacrime e sangue tra i feriti nella stazione di Maelbeek. Terrore in metrò, il pianto dei bambini durante la fuga.
Tutto vero, per carità. Ma con i titoli di Repubblica e Corriere non ci siamo sentiti – come dire – per nulla aiutati. Per nulla confortati.
Uno strano paese il Belgio. Una strana città Bruxelles. Una città divisa in 19 comuni. Ognuno con un proprio sindaco, un proprio consiglio comunale, un proprio regolamento urbanistico. Una citta dove vive più di un milione d’abitanti, la metà dei quali non è belga. Una città dove si contano più di 160 nazionalità e dove si parlano più di 100 lingue. Una città dove la metà della popolazione, a casa, non parla francese né nederlandese, ossia nessuna delle due lingue nazionali ufficiali, e dove un bambino su quattro (statistiche elaborate a spanne) con i propri genitori parla arabo, turco o berbero.
Ci è stato detto, a più voci, che il problema del terrorismo islamico viene principalmente dai giovani che vivono in questo quartiere isolato di Bruxelles, chiamato Molenbeek. Molenbeek non è un quartiere. E non è isolato. Il comune di Molenbeek si trova a 1300 metri, in linea d’aria, dal centro di Bruxelles, la Grand-Place. A piedi, dice Google Map, ci vogliono 17 minuti. Tanto per fare un paragone, è più vicino Molenbeek al centro di Bruxelles che, a Roma, la Stazione Termini rispetto al Campidoglio.
Tra Molenbeek e il centro di Parigi, ci sono un’ora e ventidue minuti di treno. Malgrado questo, persino alcuni organi d’informazione più smaliziati di altri, come Internazionale e il Manifesto, non hanno ceduto alla tentazione di relegare Molenbeek alla periferia della città. Ora, considerare Molenbeek come periferia di Bruxelles, nel momento in cui Bruxelles è sotto tiro come capitale dell’Europa, equivale a relegare alla periferia d’Europa tutt’intero il problema del terrorismo.
Uno strano paese il Belgio. Una strana città Bruxelles. Una città dove ieri sera, dieci ore dopo gli attentati, una folla di persone si è ritrovata spontaneamente nella zona pedonale del centro di Bruxelles, a 1300 metri appunto da Molenbeek.
Armati (sì, sì, lo so, ho detto “armati”), armati dicevo di fiori, candele e gessetti colorati, centinaia di donne e uomini di Bruxelles, di tutte le nazionalità, lingue e credenze, hanno disegnato sull’asfalto della strada i loro messaggi d’amore per questa città: BXLove, Bruxelles ma belle, Brussels for ever, Sorry for Brussels, Je suis chocolat, Paix, Peace, Je suis Bruxelles, Ik ben Brussel...
Una città dove, dieci ore dopo gli attentati, le reti sociali si sono spontaneamente attivate per offrire un trasporto in automobile o un alloggio in casa alle persone rimaste bloccate, all’aeroporto o in città. Una città dove le associazioni degli albergatori hanno messo a disposizione camere gratis.
Dicono che le bombe di Bruxelles accelerano la fine di Schengen (Ettore Livini, La Repubblica). Accelerano la fine dell’Europa, verrebbe piuttosto da aggiungere. Sette giorni fa, insieme ad altri colleghi e compagni dei sindacati belgi, francesi e britannici, ervamo a Calais, per una riunione sindacale sulla questione dei rifugiati. Nella pausa di pranzo ci hanno accompagnati a visitare il campo. La giungla. Insomma, quello che ne resta. Impossibile da spiegare. Impossibile da raccontare. Lì, in quel momento, oltre a vergognarci per quello che stavamo vedendo, abbiamo capito che non dovremmo mai parlare di cose che non conosciamo. Che non puoi capire se non hai visto.
Quella che è stata spregiativamente battezzata la giungla, è una città. Una piccola città di seimila abitanti, costruita sulla sabbia, con cartoni, legno e teli. Una città con la sua economia locale. Con ristoranti e negozi. Con un hotel (sì, c’era scritto hotel!). Con una moschea e una chiesa ortodossa. Con un centro d’accoglienza per le donne. Tutto costruito sulla sabbia, con cartoni, legno e teli. Questo pezzo minuscolo di mondo, è anche questo l’Europa? Che ne abbiamo fatto del sogno dell’Isola di Ventotene?
Il politologo francese Gilles Kepel dice che il Belgio somiglia a uno stato fallito (Il Corriere). Per Lucia Annunziata, il Belgio “è” uno stato fallito (Huffington Post). Dicono, ma com’è possibile che le forze di sicurezza non abbiano bloccato gli attentatori dell’aeroporto di Bruxelles? Come è possibile che una realtà così complessa non sia stata scoperta prima? E sono commentatori professionisti che (ce) lo chiedono.
Di fronte a fatti tanto tragici e complessi, la banalità di certe domande finisce per farci provare simpatia, malgrado tutto, persino per il governo belga. Che pure è chiaramente un governo neoliberale di destra. Provateci voi. Ci provino le città di Madrid, Colonia, Londra, Parigi. Ci provi l’Italia a bloccare tre persone che – all’aeroporto – scendono da un taxi con tre trolley e si recano alla biglietteria.
Si, va bene, direte voi. Ma allora, tu che proponi? Niente. In questo momento, in questa situazione, in questo contesto, io non propongo un bel niente. O meglio. Io propongo, vi propongo, mi propongo, a me, a noi, a tutti gli opinionisti, i dirigenti, i militanti e i giornalisti di questo mondo, di cominciare con farci delle buone e giuste domande. Perché se non ci chiediamo cosa sta succedendo, cosa ci sta succedendo, cosa sta succedendo all’Europa, se ci raccontiamo che il problema è Molenbeek, Bruxelles, il Belgio e il suo governo inefficiente. Se queste sono le domande, non troveremo buone risposte.
Il sindacato Fgtb (la Cgil belga, per capirci), che non ha alcuna simpatia per il governo in carica, ieri sera ha trasmesso un comunicato, il cui accento era, nell’ordine, sul cordoglio e la solidarietà verso le vittime e le loro famiglie, sulla condanna di questi atti infami, e sulla solidarietà verso i lavoratori e le lavoratrici dell’aeroporto, dei trasporti pubblici, dei servizi di soccorso, della polizia, che si sono trovati di fronte a tanti morti e feriti e che hanno prestato tutto l’aiuto e il sostegno possibile.
La ferma sobrietà della Fgtb è un buono specchio, mi pare, della civiltà sociale del paese in cui, noi italo-belgi, viviamo. La Fgtb, che ieri dopo gli attentati ha organizzato bus, navette e autovetture per permettere a tutti i propri dipendenti e militanti di rientrare a casa. Che stamattina ha diffuso un avviso a tutti i lavoratori e lavoratrici affiliati, per informarli sui propri diritti (e doveri) in caso di assenza dal lavoro, forzata o scelta, in questi tristi giorni.
Una nostra compagna della Fgtb, che si occupa di salute e sicurezza sul lavoro, stava andando ieri mattina a una riunione all’Inami (equivalente dell’Inail italiano). È stata ritrovata soltanto oggi, in ospedale, in coma artificiale. Ha fratture al cranio. Era nella metro ieri mattina. Speriamo si riprenda presto. Abbiamo tutti bisogno di lei.
Carlo Caldarini è direttore dell’Osservatorio Inca Cgil per le politiche sociali in Europa