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Servirebbe un Napoleone. In quella che potrebbe essere definita la nuova “guerra dello zucchero” avremmo bisogno di un novello Bonaparte oppure, più semplicemente, di un’Unione Europea più attenta a ciò che mangia l’uomo e meno ossessionata da numeri e vincoli di bilancio. Perché, aggrappandosi ai soli numeri, si rischia di apparire come gli ubriachi che si attaccano ai lampioni, mentre centinaia di milioni di persone, in questo momento più che mai, hanno bisogno di guide solide e sicure, capaci di individuare bisogni e di trovare strategie in grado di soddisfarli.
In effetti la storia moderna dello zucchero in Europa nasce con l’imperatore francese che, durante il “blocco continentale” imposto sul vecchio continente per distruggere i commerci inglesi, trasforma in produzione industriale alternativa alla canna lo zucchero estratto dalla barbabietola. Insomma, quella che fino ad allora era stata una semplice intuizione di Olivier de Serres prima e del chimico berlinese Andrea Magraff poi, diventa una produzione su larga scala che nel corso di due secoli ha raggiunto livelli inimmaginabili, tanto da fare dello zucchero da barbabietola uno dei principi del mercato internazionale di riferimento. Poi, negli ultimi anni il disastro.
“Coltivazione della barbabietola e zuccherifici – spiega Ettore Ronconi, responsabile del settore per la Flai Cgil nazionale – hanno subìto a partire dal 2006 un’importante ristrutturazione che ha portato alla chiusura, ad oggi, di 83 stabilimenti in Europa. Le conseguenze di questa liberalizzazione selvaggia sul mercato del lavoro non si sono fatte attendere: sono andati persi 22 mila posti di lavoro e oltre 150 mila agricoltori hanno cessato la coltivazione della bietola”. Questi, appunti, sono i numeri dal volto umano che l’Ue non vede perché accecata dalla politica di deregolamentazione in voga ormai da trent’anni e che forse ora sta mostrando i suoi effetti meno graditi. Oggi, dall’Atlantico agli Urali, quel che resta della produzione saccarifera è concentrata in 18 Stati membri ed è distribuita su 106 stabilimenti che generano 180 mila posti di lavoro e supportano le attività di 160 mila coltivatori. Complice la riforma comunitaria avviata nel 2006, che ha smantellato buona parte della produzione per fare spazio a importazioni agevolate in base ad accordi internazionali, per soddisfare la propria domanda l'Europa è passata con queste riduzioni da secondo esportatore a primo importatore mondiale, soprattutto dai paesi in via di sviluppo. Una situazione di deficit ormai strutturale che l'anno scorso ha fatto registrare importazioni per 3,5 milioni di tonnellate, a fronte di un fabbisogno di 16,5 milioni, e che verosimilmente si riproporrà pure nella prossima campagna.
La ristrutturazione dell’industria europea dello zucchero ha avuto un grande impatto anche in Italia. Il nostro paese ha dovuto rinunciare – con la drastica riduzione delle quote – alla produzione di un milione di tonnellate di quota zucchero, passando da 1,5 milioni pre-riforma alle attuali 508 mila. Contestualmente gli zuccherifici sono passati da 19 a 4, con la chiusura di ben 15 stabilimenti e, di conseguenza, le superfici a barbabietola sono scese da 250 a circa 50-60 mila ettari. In sostanza, la quota di produzione dell’Italia nell’Ue è passata dall’8,6 al 3,8% e oggi il paese produce solo il 30% del suo fabbisogno di zucchero e ne importa il resto. Ma al peggio non c’è mai fine. “Con l’entrata in vigore del nuovo regolamento comunitario in materia – prosegue Ronconi – al settore potrebbe essere inferto l’ultimo colpo letale. La via imboccata, infatti, è quella di un’ulteriore riduzione della produzione di zucchero del 50% a livello europeo per favorire la crescita economica dei paesi in via di sviluppo impegnati nella coltura della canna. A partire dal 2016 con l’abolizione delle quote e dei sistemi compensativi previsti dalla politica agricola comune (Pac), il destino degli ultimi quattro zuccherifici italiani potrebbe così essere segnato”.
Sembrano ormai lontani anni luce i tempi in cui il surplus agricolo e l’autosufficienza alimentare dell’Unione erano considerati un bene comune da perseguire con determinazione. In conseguenza della riforma del 2006, infatti, è stato demolito proprio il sistema del prezzo di intervento, grazie al quale l’Ue garantiva un prezzo minimo per i prodotti agricoli stabilito delle istituzioni comunitarie. Il prezzo delle produzioni non poteva scendere al di sotto di questo limite fissato, con l’Unione che si impegnava ad acquistare le eventuali eccedenze. Oggi, invece, l’Ue è diventata importatrice netta di zucchero e l’andamento mondiale dei prezzi certifica sempre più l’insostenibilità della produzione nel vecchio continente. Il crollo del prezzo finale dello zucchero sfuso è emblematico: nel 2012 era intorno ai 700 euro per tonnellata; nel 2013 è passato a circa 625 nel con un ulteriore ribasso a 365 euro per tonnellata nel 2014. Con questo livello dei prezzi è evidente che le aziende produrrebbero in perdita. Per non parlare delle grandi sofferenze a cui sono esposti gli agricoltori, che ormai sono costretti ad accettare prezzi inferiori del 15-20% per quintale di barbabietola durante il periodo di raccolta (giugno-settembre), rispetto a quello pattuito al momento della semina (novembre). Meglio chiudere allora.
“Purtroppo su questo mercato – aggiunge il sindacalista – le lobbies la fanno da padrone. Quasi il 75% degli approvvigionamenti è nelle loro mani. È puerile collegare zucchero alle bustine per le tazzine da caffè. Basti pensare che tra i più grandi acquirenti al mondo di questa materia prima c’è la Coca Cola e, a seguire, le industrie farmaceutiche: è facilmente intuibile che gli interessi di questi grandi gruppi non siano la qualità del prodotto, la condizione di salute dei terreni, la retribuzione dei lavoratori e le condizioni di vita dei contadini”. Ed è proprio su questi temi che si palesa il secondo paradosso: l’Unione europea tra il 2006 e il 2008 ha versato un contributo di 43 milioni di euro nelle casse di ogni proprietario di zuccherificio che ha optato per la chiusura. Il governo italiano, dal canto suo, a molti dei lavoratori licenziati sta continuando ad erogare ammortizzatori sociali. Oltre al costo sociale descritto, ce ne è anche uno ambientale da non sottovalutare: la barbabietola è una coltura utile per la rotazione dei terreni che genera un uso meno massiccio di fertilizzanti.
Insomma: nonostante il miliardo di fatturato annuo, i 53 mila ettari attualmente coltivati a bietola e i 13 mila lavoratori diretti e indiretti impiegati, sembra che la parola fine sia scritta nel destino di questo settore in Italia. E non sono pochi quelli che corrono ai ripari. Emblematico è il caso del Gruppo Sfir di Cesena, che dopo aver dismesso i suoi ultimi quattro stabilimenti di trasformazione delle barbabietole, ha deciso di diversificare l'attività, con un nuovo impianto di raffinazione di zucchero di canna entrato in funzione nel 2011 nella zona industriale di Brindisi. La raffineria, che ha comportato un investimento di oltre 115 milioni di euro, è situata a ridosso del porto della città pugliese, dove le navi arrivano da mezzo mondo con i loro carichi di zucchero grezzo di canna da trasformare in prodotto finito.
“E’ la conferma –conclude Ronconi – che la filiera dello zucchero in Italia e in Europa sta per essere spazzata via. L’agricoltura in senso stretto subisce così un duro colpo e l’effetto sostituzione di questa nuova realtà industriale sarà inferiore rispetto ai volumi occupazionali che ruotavano intorno alla barbabietola. Anche per queste ragioni ci stiamo battendo a livello nazionale e comunitario per ottenere almeno una proroga fino al 2020 del sistema attuale”. Per la Pac 2014-2020 la Commissione propone l’abolizione delle quote zucchero, proseguendo il processo di totale liberalizzazione del mercato, iniziato con la riforma del 2006. L’abolizione delle quote zucchero ha trovato la netta opposizione dei bieticoltori e degli industriali europei secondo i quali la liberalizzazione del mercato espone il settore bieticolo-saccarifero europeo alla destabilizzazione a causa del divario di competitività con i produttori di canna da zucchero a livello mondiale.
Per queste ragioni, la Cibe (Confederazione europea dei bieticoltori) e, in Italia, l’Anb (Associazione nazionale bieticoltori) e i sindacati di categoria nazionali ed europei hanno chiesto al Parlamento europeo e al Consiglio agricolo di mantenere l’attuale assetto con le quote zucchero almeno fino al 2020. La Commissione europea invece difende la proposta di azzeramento delle quote. Tuttavia, anche i paesi esportatori temono l’eliminazione delle quote zucchero. Infatti i 79 paesi Acp, legati all’Ue dall’accordo di Cotonour itengono che la loro soppressione nell’Ue avrà un impatto negativo sulla produzione di zucchero nei loro paesi. In altre parole, potrebbe portare ad un aumento della produzione comunitaria e quindi a una riduzione dell’importazione. Nonostante produttori, agricoltori e paesi esportatori siano quanto meno perplessi, la legge di mercato scelta dall’Unione prosegue inesorabile nella sua applicazione. Anche a costo di scatenare una guerra. Una guerra dello zucchero dal sapore amaro e dal futuro imprevedibile.