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L’Italia è un paese che vive di mode e luoghi comuni. Si parla di innovazione e delle sue implicazioni industriali ed economiche, ma troppi dirigenti e opinionisti sono solo dei ripetitori. È da poco stato presentato lo studio sulle “energie rinnovabili” al Politecnico di Milano, realizzato da Energy Startegy Group, un report pieno di informazioni utili per chi vuole declinare le nuove politiche industriali e per chi crede nello sviluppo di un nuovo paradigma tecno-economico. Tra le tante informazioni utili, una spiega lo stato e il probabile futuro dell’Italia nella green economy: in Italia “non vi sono … leader tecnologici riconosciuti a livello globale sulle tecnologie chiave delle rinnovabili”.
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Seguo da tempo la relazione tra green economy e politica industriale, ma un giudizio così perentorio non mi era ancora capitato di leggerlo da parte di istituti di ricerca diversi dal Forum degli economisti della Cgil. Quanto è grave e profonda la crisi italiana? Tanto e troppo allo stesso tempo. Sebbene gli investimenti aggregati nel mondo sono complessivamente in riduzione – “non potete aspettarvi che gli imprenditori si mettano a varare programmi di ampliamenti mentre stanno subendo perdite (Keynes)” –, quelli per realizzare nuovi impianti da fonti rinnovabili hanno raggiunto i 290 miliardi di euro nel 2015, con una crescita del 21% rispetto al 2014, superando il picco del 2011.
Tutte le principali aree economiche del mondo, al netto dell’Europa, predispongono dei piani di investimento senza precedenti. L’Asia è diventata l’indiscussa leader, con un contributo pari al 55% del totale, per un contro valore di 110 miliardi di euro; l’Africa ha moltiplicato per 20 il suo livello di investimenti – più o meno rappresenta un terzo delle risorse europee –; l’Europa perde terreno, passando dal 40% degli investimenti complessivi del 2008 al 21% del 2015; gli Usa, invece, intravvedono nella green economy un’opportunità, con gli investimenti che passano dai 55 miliardi del 2008 ai 70 nel 2015.
Nel panorama europeo, Regno Unito, Germania e Francia rappresentano il 45% del totale degli investimenti europei nelle rinnovabili. In altri termini, solo alcuni Paesi dell’area Ue hanno rinunciato allo sviluppo della green economy e, tra questi, troviamo l’Italia. La contrazione europea è quindi direttamente proporzionale al rallentamento – non marginale – dell’Italia. Non solo. All’interno degli investimenti (mondiali), il fotovoltaico (39%), l’eolico (31%) e l’idroelettrico (22%) rappresentano il principale sbocco degli stessi e, inevitabilmente, sosteranno lo sviluppo dell’industria che direttamente e indirettamente ne sarà coinvolta. Persino gli Stati Uniti dedicano una quota crescente degli investimenti nel fotovoltaico e nell’eolico. Non si tratta solo di sviluppare il mercato domestico. In gioco c’è la divisione internazionale del lavoro.
La crescita degli investimenti nelle fonti rinnovabili in Asia, Africa e Americhe nel loro insieme, disegna uno scenario più complesso di quello che potrebbe apparire a prima vista. Se la produzione di beni e servizi “tradizionali” è interessata da una domanda di sostituzione, inevitabile rispetto ai livelli di reddito raggiunti, la produzione di beni e servizi legati alla green economy potrà solo crescere, in particolare per le aree di nuova industrializzazione. Si tratta di domanda estera ad alto valore aggiunto e ad alto contenuto tecnologico, che cambierà il contenuto della crescita, sia dei paesi emergenti e sia dei paesi che offrono tecnologia adeguata.
Come ci ricordava Paolo Sylos Labini, “in un’analisi dinamica lo sviluppo economico è da riguardare, non semplicemente come un aumento sistematico del prodotto nazionale concepito come aggregato a composizione data, ma, necessariamente, come un processo di mutamento strutturale, che influisce sulla composizione della produzione e dell’occupazione…”. In molti si sciacquano la bocca con la competitività internazionale e il cosiddetto made in Italy, ma la realtà è drammatica. Nell’internazionalizzazione degli investimenti legati alla green economy si osservano tre dinamiche: quella delle società finanziarie che esportano le filiere nazionali del settore – sono spesso tedesche, francesi e spagnole –; quella del technology driven, i possessori di tecnologia chiave che offrono tecnologia che viene poi implementata da soggetti presenti nel territorio interessato – è il caso della Germania con l’area asiatica –; quella delle semplici acquisizioni delle utility per allargare il mercato per le produzioni in essere.
L’assenza dell’Italia in tutte le fasi di creazione del valore del settore pregiudica la capacità di concorrere alla realizzazione del nuovo paradigma tecno-economico. L’effetto? Il lavoro buono non sarà di casa in Italia, salvo che per le attività marginali.