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Sessant'anni fa, il 1° marzo 1944, gli operai delle grandi città del Nord occupato dai nazisti scendevano in sciopero. Le agitazioni si prolungarono per un’intera settimana coinvolgendo, si calcola, circa mezzo milione di lavoratori. L’esito, sotto il profilo strettamente economico, non fu positivo: le rivendicazioni non vennero accolte, la repressione al contrario fu assai dura. Ma l’impatto politico fu enorme: lo sciopero aveva dimostrato che le formazioni partigiane organizzatesi in montagna non erano isolate, che le città non erano abitate solo dalla paura e dalla rassegnazione. In occasione del cinquantesimo anniversario di quella lotta, e in coincidenza con la grande manifestazione antifascista organizzata a Milano il 25 aprile, Rassegna dedicava il numero speciale del Primo Maggio alle lotte operaie e contadine nell’Italia del ’43-44. Ripubblichiamo di seguito la testimonianza di Nella Marcellino, nel secondo dopoguerra dirigente di primo piano della Cgil, nei giorni dello sciopero, poco più che ventenne, impegnata nel triumvirato insurrezionale del Pci piemontese.
“Tornai a Torino nel 1941. Avevo poco più di diciotto anni, il mio partito, il partito comunista, aveva chiesto ai giovani di rientrare in Italia. Mi offrii. A Parigi, Antonio Roasio, che era tra i dirigenti del centro estero del partito, mi “istruì”, mi diede una valigia con doppio fondo in cui c’erano soldi e documenti e mi incaricò di contattare Umberto Massola, inviato a ritessere le fila dell’organizzazione per l’Alta Italia, di cui si erano perse le tracce. “Giunsi a Torino. Vi mancavo da quando a sei anni, nel 1929, ero espatriata clandestinamente in Francia, con mia madre, per raggiungere mio padre, condannato dal Tribunale speciale e ripartito oltralpe tre anni prima. Andai a vivere con la nonna e uno zio a Mirafiori, ma riuscii a rintracciare Massola, tra mille peripezie, solo diversi mesi dopo il mio arrivo. Ricordo ancora oggi la parola d’ordine che pronunciai per farmi riconoscere: “Ti ho portato la bambola per Nanà”. Feci vari lavori, l’ultimo dei quali al San Paolo di Torino, dove ero stata assunta grazie al mio diploma da ragioniera. Abbandonai quell’impiego all’indomani della caduta del fascismo, il 25 luglio del 1943”.
Rassegna Quali erano i tuoi compiti?
Marcellino Raccoglievo le informazioni che ogni settimana, al massimo ogni dieci giorni, ci portavano le staffette delle brigate partigiane. Le rielaboravo, quasi sempre insieme ad Arturo Colombi, uno dei dirigenti del triumvirato, per farne delle sintesi che inviavamo a Milano, alla direzione del Pci per l’Alta Italia. Ero anche responsabile del comitato stampa e collaboravo naturalmente alla redazione del Grido di Spartaco, il giornale comunista del Piemonte.
Rassegna Com’era Torino in quei mesi? Come si viveva?
Marcellino Era una città che lavorava essenzialmente in fabbrica; ma che, pur lavorando, non aveva più i mezzi per nutrirsi. Il salario diminuiva, i generi di prima necessità, zucchero, olio, farina, le cose essenziali, scarseggiavano. E al mercato nero avevano prezzi impossibili. Andare e tornare dal lavoro era un’impresa. A causa dei bombardamenti degli angloamericani molte famiglie erano sfollate nei paesi intorno a Torino. Raggiungere la città significava sottoporsi a viaggi paurosi, su treni sovraffollati che non partivano e non arrivavano mai. Le condizioni di vita, insomma, erano terribili. Da qui le manifestazioni di protesta, la richiesta di più salario, più viveri, di un risarcimento per le sofferenze che si era costretti a patire. Tutto ciò provocò già nel novembre 1943 una serie di scioperi.
Rassegna E voi come vi muoveste?
Marcellino Comprendemmo che era assolutamente necessario collegare questo malcontento attraverso azioni che dessero risultati tangibili dal punto di vista delle condizioni di lavoro e anche, evidentemente, dal punto di vista della lotta contro i nazisti e i fascisti. Vi era però una difficoltà: lo sciopero politico era soggetto alle leggi di guerra. Lo sciopero economico era represso, quello politico comportava la deportazione o addirittura la fucilazione. Ciò provocò discussioni con i rappresentanti delle forze moderate presenti nei comitati di agitazione, gli organismi sorti nelle fabbriche, e nei Comitati di liberazione nazionale: “Per carità – ci dicevano – non parliamo di politica, perché non si sa quel che può accadere”. Cosa evidentemente ridicola, perché qualsiasi sciopero che tu facessi, anche per il più piccolo aumento di salario, diventava in sé politico. Tuttavia riuscimmo a superare questa difficoltà, cominciammo a lavorare per unificare il movimento e arrivare a grandi scioperi di massa che volevamo influissero sul corso della guerra, raccordandosi al movimento partigiano. Insomma: noi non volevamo attendere, volevamo combattere. Battendo appunto le tentazioni attesiste.
Rassegna Non c’era la preoccupazione che rivendicazione economica e rivendicazione politica potessero non combinarsi perfettamente?
Marcellino La gente stava male e sentiva la necessità di difendere la propria vita. La base della rivendicazione economica, per qualsiasi movimento si volesse mettere in piedi, era essenziale. Non ricordo nessuno sciopero, salvo quello insurrezionale, in cui non si sia dato tutto il peso necessario alle rivendicazioni economiche che presentavamo ai dirigenti d’azienda. Ma la parola d’ordine contro il fascismo veniva naturale. Perché nessuno più poteva dire che quei mali cadevano dal cielo: quei mali erano la conseguenza dell’occupazione tedesca e della presenza dei fascisti, che con i tedeschi collaboravano.
Rassegna Pensavate si stesse avvicinando il momento dell’insurrezione?
Marcellino No, nel modo più assoluto. Speravamo che alla fine del 1944 il secondo fronte venisse sfondato e gli Alleati venissero su. Non prima. Però i rovesci dei tedeschi sul fronte orientale contavano: Stalingrado aveva dimostrato che non erano più invincibili e questo era molto importante. Ciò detto, lavorammo intensamente alla preparazione dello sciopero, contattando gli operai che erano nelle fabbriche, la gente dei rioni, e così via. Però non eravamo tanto sicuri che lo sciopero riuscisse. La situazione era complicata, c’era paura di esporsi. All’inizio le notizie che arrivavano erano sporadiche. In alcune fabbriche si era scioperato, in altre gli operai erano usciti, in altre ancora la gente aveva aderito solo parzialmente. Ma poi via via lo sciopero guadagnò forza, e si combinò anche ad alcune azioni dei Gap, come il disarmo dei fascisti. Molti industriali misero in ferie gli operai e chiusero la fabbrica. Tuttavia la manovra non guastò più di tanto i nostri piani, e lo sciopero diventò di fatto generale.
Rassegna Quali furono le caratteristiche principali di quelle giornate di lotta?
Marcellino Essenzialmente due. La grande fabbrica scioperava, ma spesso era preceduta dalle aziende di medie e anche piccole dimensioni. Forse perché è più facile muovere una fabbrica di due, trecento operai che non di migliaia di persone. L’altra caratteristica fu la combattività delle donne. Erano loro, molto spesso, che trascinavano gli uomini.
Rassegna Come lo spieghi?
Marcellino Con il fatto che poi, quando si usciva dal lavoro, erano loro che dovevano procurarsi il necessario per la famiglia. In molti stabilimenti le donne sono state le vere protagoniste, le più combattive. E poi le donne pensavano quel che han sempre pensato le braccianti della Padana: che se si mettono davanti, è più difficile attaccare una manifestazione.
Rassegna Cosa facesti in quei giorni?
Marcellino Oh, ci vorrebbe un libro solo per descrivere l’altalena delle emozioni che provai. Comunque, un episodio lo voglio raccontare. Era il primo giorno di sciopero, il 1° marzo. Mi trovavo in centro, all’angolo tra Corso Vittorio Emanuele e Via S. Secondo, vicino alla stazione di Porta Nuova, e aspettavo un tram, credo fosse l’11. Dovevo andare dalle parti della Fiat Mirafiori. Per la precisione dovevo scendere prima di Mirafiori, su quello che oggi si chiama Corso Unione Sovietica, allora Corso Stupinigi, all’altezza di Corso Dante. Avevo con me dei fogli battuti a macchina, dovevo portarli in una casa perché fossero poi ciclostilati durante la notte: si trattava di volantini per lo sciopero.
Il tram non arrivava. Ero combattuta tra due sentimenti. Se il tram non arriva, pensavo, vuol dire che è bloccato ai capolinea perché i tramvieri hanno cominciato a scioperare. Oppure, l’altro sentimento, vuol dire che il tram è bloccato al capolinea di Mirafiori perché gli operai sono usciti. E allora il tram non solo non scende, ma non sale – molti tratti di quella linea erano allora a binario unico, per cui prima passava un tram poi l’altro –. Finalmente arrivò: era una di quelle vecchie vetture aperte davanti e dietro in cui i posti a sedere consistevano in due panche l’una di fronte all’altra che correvano lungo i fianchi della carrozza. Potevano essere le 10,30, le 11 del mattino. Il tram era strapieno. La gente brontolava, ma non era ancora chiaro cosa stesse avvenendo. Io poi volevo capire se lo sciopero stava riuscendo, se le fabbriche avevano cominciato a muoversi. Avevo il cuore in gola: c’eravamo spesi molto per la preparazione e, se fosse fallito, sarebbe stato gravissimo. Mentre il tram andava avanti, cercavo di avvicinarmi all’uscita. Un po’ prima dell’Ospedale Mauriziano il tram girava, e lì il binario diventava unico. Il tramviere era pressato dalla gente, non riusciva neanche a manovrare, io gli ero finita praticamente addosso. Lui si indispettì: “Insomma – urlò –, io così non riesco neanche a lavorare”. E io, facendo una cosa che non avrei mai dovuto fare, violando le più elementari regole cospirative: “Beh, lei proprio non dovrebbe lavorare! – risposi –. Gli altri scioperano, lei fa il crumiro, si vergogni!”. Ero furibonda. Il tramviere mi guardò esterrefatto e proseguì la manovra. Io continuai a insultarlo: “Ma non ti vergogni – ero passata al tu –, i tuoi compagni scioperano e tu continui a lavorare!”.
Rimase interdetto. Si fece un gran silenzio, cominciai a pensare che forse avevo sbagliato. Il tramviere prese la curva e quando arrivò allo scambio per mettere la vettura sulla linea di Mirafiori lo oltrepassò, ostruì la linea, staccò la manetta e disse: “Ora basta”. E scese.
La gente era tutta lì. Allibita. Allora io salii su una delle panche e cominciai il mio primo comizio in Italia. Tirai fuori l’elenco delle rivendicazioni, basta con i fascisti, basta con la guerra, bisogna farla finita. La gente mi guardava, alcuni visibilmente soddisfatti, altri impauriti, fatto sta che cominciarono a scendere e dopo alcuni minuti il tram era vuoto. Il tramviere era sparito con la manovella e la linea per Mirafiori era bloccata. A quel punto cominciai a pensare che bastava che ci fossero due fascisti perché smettessi di fare la guerra di liberazione.
Scesi dal tram. Erano rimaste meno di dieci persone, tra cui un signore elegante, che mi si avvicinò dicendo: “Signorina, vada via, vada via subito, se ne vada per carità!”. Lo guardai male: “Si occupi dei fatti suoi”, gli risposi. Poi di corsa attraversai Viale Stupinigi, non c’era nessuno, andai lungo la ferrovia, lì c’era una via molto appartata, c’è ancora, feci una corsa, mi voltai, sempre nessuno, andai ancora avanti, entrai in un portone, guardai a destra e sinistra, nessuno. Dopo un po’ ritornai indietro, passai alla sinistra del mio tram, che era sempre lì, fermo, intorno il deserto, e riuscii a raggiungere le case dei ferrovieri vicino Corso Dante. Qui, finalmente, consegnai il mio materiale.
Mi tenni l’avventura per me: non dissi nulla né ad Arturo Colombi né a Giovanni Nicola né a Francesco Scotti, che dirigevano in quel momento il triumvirato insurrezionale. Stetti zitta, ne parlai solo dopo la guerra di liberazione: se l’avessero saputo, mi avrebbero subito mandata a Milano o in qualche altra città.
Fu una cosa in parte impulsiva, in parte dovuta al fatto che temevo davvero che lo sciopero non riuscisse. Invece ebbe uno straordinario successo.