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“II compagno Longo ha espresso in modo molto netto le sue critiche, le sue preoccupazioni sulla questione della pubblicità del dibattito. Non sarei sincero se dicessi a voi che sono rimasto persuaso”. È la dichiarazione, coraggiosa e prudente, con cui Pietro Ingrao rivendica dalla tri-buna dell’11° congresso del Partito comunista il diritto al dissenso. Un atto di rottura, di cui ancora oggi – quando sono trascorse solo poche ore dalla sua scomparsa – risulta difficile comprendere appieno la portata, in particolare per chi non conoscesse la storia, la tradizione e la liturgia del Pci.
Siamo nel 1966 e all’interno del partito, orfano di Togliatti (scom-parso nel 1964), si confrontano due linee: quella rappresentata da Giorgio Amendola, che si muove nella prospettiva di un’unificazione con il Partito socialista e quella che si riconosce nell’analisi del neocapitalismo e nelle dure critiche alla politica di centro-sinistra formulate da Ingrao. Nessuna delle due linee riesce a prevalere, lasciando le redini del partito nelle mani del centro di Longo, Berlinguer e Pajetta, punto di sintesi tra la “destra” amendoliana e ora la “sinistra” ingraiana.
Ma che significa “ingraiano”, un termine che il diretto interessato ha sempre respinto? Ne “Le cose impossibili”, un’ autobiografia raccontata e discussa nel 1990 con Nicola Tranfaglia, Ingrao ricorda: “Quanti compagni e compagne si sono visti appiccicare questa etichetta di ‘ingraiani’, e non lo erano. In ogni modo, quelle volte in cui siamo andati a contarci, io ne ho trovati pochi”.
Tra i dirigenti del Pci Ingrao è sempre stato uno dei più estranei ai tatticismi della politica, al punto da essere considerato un fumoso utopista che non vuole fare i conti con la realtà. Per lui, invece, essere concreti significa pensare in grande, prestare attenzione al nuovo: “Abbastanza presto ho avuto la consapevolezza, e direi anche il bisogno, di una sinistra plurale, una ‘curiosità’ verso altri filoni della sinistra. Insomma: molto orgoglio comunista (anche se la parola ‘orgoglio’ non sta proprio dentro al mio vocabolario: la uso con riluttanza), ma anche un assillo, sempre, di guardare al di là dei nostri paletti. Nelle mie limitate forze, io non sono un integralista come qualcuno è andato dicendo, ma piuttosto un uomo di ‘frontiera’. Certo, da comunista testardo, ma sempre pieno di curiosità verso gli altri. Diviso dentro di me tra un desiderio di convento mai realizzato (ma non in senso religioso!), e una grande, estrema curiosità verso gli altri, verso le diversità”.
Ingrao nasce a Lenola, in provincia di Latina, il 30 marzo 1915, da una famiglia della borghesia agraria di tradizioni liberali (il nonno paterno è mazziniano). Dopo gli studi classici a Formia, si trasferisce con la famiglia a Roma, dove consegue due lauree – in Giurisprudenza e in Lettere e Filosofia – e può soddisfare la sua grande passione per la settima arte, frequentando il Centro sperimentale di cinematografia. Nel luglio 1936, scosso dalla rivolta franchista contro la Repubblica spagnola, matura la scelta antifascista ed entra nell’organizzazione clan-destina del Pci: “Da allora, la lotta di classe diventò il punto cen-trale nella mia vita, il primo dovere, la prima speranza: la lotta per cacciare i padroni”.
Nel 1943, prima a Milano e poi a Roma, lavora all’edizione clandestina dell’Unità, che dirige dal 1947 al 1956. Nel 1948 viene eletto deputato e siede a Montecitorio per 10 legislature, fino al 1992. Entra nella segreteria del Pci nel 1956, anno dei tragici fatti d’Ungheria: della scelta di allora, a fianco dei sovietici, si pentirà pubblicamente. Per anni punto di riferimento della sinistra interna, nel 1969, con una decisione destinata a restare una ferita aperta nel suo animo, vota per l’espulsione del gruppo del Manifesto.
Presidente della Camera dei deputati dal 1976 al 1979, vive in prima linea i giorni drammatici del sequestro Moro. In questa fase, l’impegno e la riflessione di Ingrao sono rivolti in particolare ai temi istituzionali, dando grande impulso all’attività del Centro studi per la riforma dello Stato. Nel 1989 si oppone alla svolta di Occhetto, poi aderisce al Pds come leader riconosciuto dell’area dei comunisti democratici. Nel 1993 abbandona il partito e si avvicina a Rifondazione comunista, a cui s’iscrive nel 2005. Nel 2010 manifesta il proprio sostegno a Sinistra ecologia e libertà.
Ingrao si è congedato dal mondo volendo essere ricordato come “un figlio dell’ultimo secolo dello scorso millennio: quel Novecento che ha prodotto gli orrori della bomba atomica e dello sterminio di massa, ma anche le speranze e le lotte di liberazione di milioni di esseri umani”. Volgendosi in-dietro si era ritrovato nei versi di Brecht: “Nelle città venni al tem-po del disordine/quando la fame regnava/Tra gli uomini venni al tempo delle rivolte/e mi ribellai insieme a loro”. Ma fino all’ultimo Ingrao non ha smesso di immaginare il futuro: “Il mondo è cambiato, ma il tempo delle rivolte non è sopito: rinasce ogni giorno sotto nuove forme. Decidi tu quanto lasciarti interrogare dalle rivolte e dalle passioni del mio tempo, quanto vorrai accantonare, quanto portare con te nel futuro”.