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La recente pubblicazione del Rapporto regionale Inail dell’Emilia Romagna consente una riflessione di natura strutturale su alcuni aspetti delle trasformazioni del lavoro. Nella piena consapevolezza che l’evento infortunistico, così come la malattia professionale, non esaurisca l’esplicitazione delle condizioni di lavoro, ma ne descriva solo la dimensione più fattuale, i dati mostrano come il fenomeno sia in forte calo tra il 2010 e il 2014, passando dagli oltre 116mila casi denunciati del 2010 agli 88mila del 2014, con una contrazione di oltre il 24% in quattro anni.
Senza dubbio le dinamiche occupazionali nel corso della crisi hanno contribuito alla riduzione del fenomeno, riducendo le probabilità di accadimento infortunistico in termini di numero di occupati e di ore lavorate. Applicando diversi correttivi alla dimensione occupazionale e quindi tenendo conto non solo del calo imputabile alla crisi, ma anche dell’ampio ricorso alla cassa integrazione registratosi tra il 2010 e il 2014, il rapporto tra infortuni denunciati Inail e il numero di occupati Istat in Emilia Romagna è calato da 61 a 46 infortuni ogni 1.000 occupati. A fronte di un innegabile calo infortunistico in termini generali, una lettura più attenta del dato consente di individuare alcune specificità e asimmetrie strutturali.
In particolar modo, si evidenzia una divergenza delle velocità di contrazione per settore. Mentre l’industria perde circa il 30% degli infortuni tra il 2010 e il 2014, il terziario, nella sua complessità, scende a un ritmo più contenuto, pari al 18%, nel medesimo periodo. A registrare il più importante calo infortunistico è il comparto artigiano, con una diminuzione di circa un terzo, da imputare prevalentemente al tracollo del tessuto produttivo artigianale nel corso della crisi. Lo stesso declino occupazionale del settore delle costruzioni si evince anche da un netto miglioramento in termini di numero di infortuni: tra il 2010 e il 2014 il tasso infortunistico quasi si dimezza con circa 4mila casi in meno. La crescente spinta alla terziarizzazione della base occupazionale, dunque, potrebbe essere intesa anche come un processo a più bassa esposizione infortunistica, a cui però, come ricordato, non necessariamente si accompagna un miglioramento delle condizioni di lavoro.
In termini sintetici e circoscrivendo l’analisi agli infortuni in occasione di lavoro, nella gestione Inail industria e servizi, posto pari a 100 il rapporto tra il peso degli infortuni totali e gli occupati totali, il solo settore delle costruzioni vede salire l’indicatore a 180 (ovvero l’80% di probabilità in più), l’industria manifatturiera a 120 (20% in più) e i servizi a 88 (il 12% in meno). Le trasformazioni del lavoro riescono quindi a definire una cornice interpretativa dentro la quale leggere il calo degli infortuni sul lavoro. Ma ovviamente non spiegano tutto, in quanto dentro il contenitore statistico dei servizi insistono attività molto asimmetriche tra loro: basti pensare che in soli tre settori (commercio, sanità e logistica) si concentra oltre la metà degli infortuni occorsi nei servizi nel 2014.
Alla crescita dei servizi si accompagnano anche processi di deverticalizzazione del sistema produttivo, di polverizzazione aziendale e di lavoro autonomo a cui sono spesso associate frequenze infortunistiche più contenute, ipoteticamente attribuibili a pratiche elusive od omissive. In secondo luogo, le morti sul lavoro, stando a quanto rilevato da Inail, crescono in tutto il periodo considerato con una contrazione di rilievo solo nel 2013 e si attestano a 115 nel 2014. Ciò che vale la pena sottolineare è che gli infortuni in itinere, ovvero quelli occorsi nel tragitto casa-lavoro, rappresentano circa il 30% degli infortuni mortali. Se a questi si aggiungono quegli infortuni avvenuti in occasione di lavoro, ma con mezzo di trasporto (27%), si rileva come oltre un infortunio mortale su due in Emilia Romagna avvenga su un mezzo di trasporto. Il dato afferma la centralità della logistica nell’organizzazione del lavoro e ripropone con forza come i cicli produttivi non si esauriscano dentro i confini aziendali, ma trovino nelle reti viarie un pezzo della filiera. In chiave preventiva, inoltre, emerge evidentemente come il contenimento degli infortuni debba essere l’obiettivo di convergenze non solo delle parti sociali, ma anche dell’attore pubblico.
In terza battuta, gli infortuni si verificano principalmente per i lavoratori maschi, circa 50 casi ogni 1.000 occupati, mentre per le lavoratrici l’indice scende a 35, sempre per 1.000 occupati. La frequenza degli infortuni femminili raggiunge il suo massimo nella fascia 15-24 anni e il suo minimo per gli over 65. Se il picco inferiore è principalmente imputabile a una bassa incidenza occupazionale per classe di età della forza lavoro femminile (è donna solo il 26% degli occupati over 65), il picco superiore trova una sua giustificazione non tanto nella dimensione lavorativa, quanto nelle condizioni sociali e culturali di chi accede al mercato del lavoro.
L’imperizia con la quale ci si affaccia al lavoro, la discontinuità di un processo di accumulazione di sapere, e saper fare, imposto dalla precarietà e politiche formative inefficaci fan sì che la frequenza per i lavoratori più giovani (15-24 anni) sia pari a 120 infortuni su 1.000 occupati: un lavoratore o lavoratrice giovane ha una probabilità di infortunarsi tre volte superiore alla media. Per la componente maschile, l’indicatore sale addirittura a 135 infortuni per 1.000 occupati. Ma non solo. Sempre per i lavoratori maschi l’indice di frequenza infortunistica rimane generosamente sopra la media fino a 34 anni, a dimostrazione di come le condizioni di ritardo preventivo rispetto ai temi della sicurezza sul lavoro si trascinino anche in età più avanzate.
La questione di genere riemerge con forza, tra l’altro, anche rispetto agli infortuni con esiti mortali. Mentre per gli uomini oltre il 70% delle morti è in occasione di lavoro, per le donne la quota preponderante (oltre il 60% nel 2014) è rappresentata da incidenti in itinere. In questo caso, l’asimmetria di genere sembra restituire, nella sua drammaticità, l’incessante bisogno di una maggiore conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro.
Davide Dazzi è ricercatore dell’Ires Emilia Romagna