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Per capire cosa (non) è il giornalismo partecipativo bisogna partire dalla provocazione lanciata qualche settimana fa da Julian Assange: i giornalisti hanno tradito, si sono dimostrati incapaci – nella migliore delle ipotesi – o in malafede nella peggiore nel trattare le notizie messe a disposizione da Wikileaks.
Dunque, cittadini, datevi da fare: servitevi, cercate e diffondete a piene mani le notizie che ho raccolto per voi. Al netto delle provocazioni consuete del personaggio, l’appello di Assange mostra proprio il contrario di ciò che apparentemente dichiara nelle intenzioni: così come le chiamate populistiche e demagogiche dei one man show di politici che puntano a saltare tutti i corpi intermedi non per condividere, ma per tirare tutto a sé, il giornalismo partecipativo non è quello che evita le mediazioni per immettere le notizie nel flusso indistinto – e perciò potenzialmente poco democratico – dei media. All’opposto, la partecipazione esalta le interrelazioni e non la fusione: la dialogicità, le regole condivise, la capacità da parte di tutti di farsi attraversare e anche mutare in profondità dall’altro.
Cittadini e reporter, dunque, sono uniti dal comune appartenere a un orizzonte di cittadinanza digitale che muta in profondità e moltiplica le possibilità di comunicare il rapporto di ciascuno con la realtà. Cittadini e reporter non sono la stessa cosa, ma ormai possono crescere solo insieme. Nella consapevolezza che anche l’informazione è un bene comune che va non solo preservato gelosamente, ma costruito e ricostruito con impegno costante. Forse è per questo, probabilmente, che nessuno a quanto risulta ha risposto finora all’appello apocalittico di Assange.