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Sembrerebbe che con il documento Industria 4.0 il governo abbia presentato la sua proposta in materia di intervento di politica industriale. Una proposta che si giova di un certo consenso originario anche da parte di Confindustria e, più recentemente, anche da parte del Parlamento. Che un piano d’intervento in questo settore sia necessario – visto le nostre condizioni competitive internazionali – è questione fuori discussione, ed è confermata, se ce ne fosse bisogno, dagli andamenti dello sviluppo, dell’occupazione, del declino economico che da alcuni decenni colpisce il nostro Paese. Un declino che trova una sua conferma proprio nella debolezza del sistema industriale.
Il fatto che questo progetto si presenti senza un’interpretazione e, quindi, una terapia di questa condizione, non suona a suo favore; ma almeno in partenza, sarà opportuno cercare di trascurare questa osservazione critica. Il documento assume come proprio campo d’intervento quello delle tecnologie della comunicazione ovunque queste abbiano un ruolo, dalle comunicazioni interne alle stesse macchine meccaniche o elettroniche, tra operatori, all’interno dell'impresa, tra imprese ecc. In definitiva, in tutte quelle situazioni nelle quali si è sviluppata e si svilupperà quella che nel documento in questione viene chiamata la “quarta rivoluzione industriale”, segnata – per l’appunto – dall’utilizzo di macchine intelligenti, interconnesse e collegate a Internet.
Una “quarta rivoluzione industriale” dopo la prima, segnata dall’utilizzo delle macchine a energia meccanica; la seconda, dall’introduzione dell’elettricità, dei prodotti chimici e del petrolio; la terza, dall’utilizzo dell’elettronica e dell’Itt per automatizzare ulteriormente la produzione. A fronte delle evoluzioni e dei mutamenti dell’innovazione tecnologica avviati in questi ultimi decenni, che hanno portato a un grande cambiamento, con al centro la programmabilità dell’innovazione tecnologica, questa definizione di “quarta rivoluzione industriale” può certamente essere messa in discussione. Tuttavia, quello che interessa è cercare di capire quali sono le logiche conseguenze dell’assunzione del Piano 4.0 in termini di contribuito allo sviluppo economico e sociale del nostro Paese.
Peraltro, una politica industriale che avesse come obiettivo la competitività tecnologica dovrebbe dotarsi di strumenti operativi, progettuali e finanziari non presenti nell’attuale nostro sistema economico; basti pensare agli impegni strutturali e finanziari derivanti dall’importanza delle fasi sperimentali dei processi di innovazione dei prodotti/processi, o alla necessità di una presenza di ricerca libera e di base, senza le quali le strategie d’innovazione avrebbero vita breve. Si tratta di questioni assenti in questo progetto, dato che sono altre le attenzioni tematiche che si intendono sviluppare per l’attuazione di Industria 4.0.
Sembra evidente che partendo da una dotazione tecnologica come quella esistente attualmente, una dotazione non solo inferiore a quella di tutti i Paesi con i quali occorre misurarsi, ma la cui entità espressa in termini finanziari e di dotazione di ricercatori è ulteriormente e costantemente decrescente, sarebbe impossibile correggere le fondamenta della corrispondente situazione competitiva senza modificare in termini sostanziali questa situazione. Non è un caso, e in qualche misura nemmeno un errore, se in questo progetto non sono esplicitati tempi e modalità, per esempio, della riduzione – fino all’eliminazione – del divario in materia di addetti o di investimenti in ricerca da parte del nostro sistema industriale, dal momento che la via indicata per il recupero di competitività non si basa sulla dimensione tecnologica di questa, piuttosto da una competitività di costo per cui è importante, sempre per fare un esempio, citare tra gli strumenti pubblici di supporto (pagina 9) “lo scambio salario-produttività attraverso la contrattazione decentrata aziendale” e, tra le tecnologie abilitanti (pagina 4), solo quelle informatiche.
Il fatto che questa dimensione “informatica” possa avere un’interlocuzione a 360 gradi con il sistema industriale, con quello dei servizi e con quello agricolo, non comporta che questa dimensione possa essere tale da compensare e coprire tutti gli avanzamenti tecnologici impliciti negli sviluppi di questi settori e, quindi, nel complesso del sistema economico. Non sono necessarie competenze specialistiche per sapere che lo sviluppo delle conoscenze scientifiche costituisce un bagaglio accumulato, con un potenziale ancora tutto da scoprire anche dal punto di vista di una prospettiva applicativa. Il testo del progetto intende, evidentemente, prendere atto di questi limiti allorquando individua come “tecnologie abilitanti” solo quelle che hanno una caratteristica informatica.
Analoga limitazione appare là dove il progetto indica le direttrici strategiche di intervento, rivolte interamente ai beni industriali 4.0. Questa relazione tra sviluppo delle capacità competitive dell’offerta di Industria 4.0, a fronte di una debolezza permanente della domanda nazionale, dovrebbe avere una compensazione facendo riferimento alla domanda estera. Stando alle 19 cartelle del progetto questi vantaggi non vengono indicati, lasciando un vuoto conoscitivo che prima di impegnare le risorse pubbliche dovrebbe essere chiarito.
Ancora più chiaro e più rilevante appare il limite connesso all’assenza di obiettivi, a cominciare da quelli compresi storicamente nella voce “Mezzogiorno”; una parola del tutto assente in questo testo. Un’assenza che da sola chiarisce le origini e gli interessi che sono all’interno e alla base del documento e, anche, dei limiti che investono la sostenibilità generale del progetto. Che appare, quindi, limitato nella componente tecnologica, ma ancor più limitato negli obiettivi economico-sociali, dal momento che la conseguenza dell’assenza in questione non può che corrispondere a un ulteriore declino del Paese.
Ma questa mancanza non è limitata alla parola “Mezzogiorno”, poiché, come è ben noto, attualmente sono in grande evidenza le questioni del controllo ambientale, della salute pubblica, dell’occupazione, dell’Europa, delle relazioni internazionali ecc. Si è così di fronte a un caso evidente di deformazione microeconomica, dal momento che il ricorso all’innovazione tecnologica, pur se presentato dal governo, non sarebbe in funzione dello sviluppo generale del Paese, ma risponderebbe ai problemi di sopravvivenza della produzione di determinati beni e, nel caso specifico di questo progetto, solo di una parte della produzione di questi beni.
Purtroppo, senza nemmeno poter raggiungere questi limitati obiettivi, dal momento che questi beni saranno prodotti da chi possiede un vero sistema di innovazione tecnologica. Così, l’esigenza di una politica industriale che sappia correggere il nostro declino resta una questione aperta, sino a quando non si avrà la capacità di mettere in discussione le basi pseudo-culturali liberiste, le corrispondenti ottiche microeconomiche e la concezione finanziaria della qualità dello sviluppo, tutt’ora prevalenti anche a livello europeo.