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Sulla proposta di legge di riforma del Terzo Settore riprende il dibattito al Senato (ddl S. 1870). Il termine per presentare gli emendamenti in commissione referente (Affari costituzionali) scadeva il 7 settembre. Nonostante gli annunci del Presidente del Consiglio, il dibattito sulla riforma è stato povero e per lo più circoscritto agli addetti ai lavori. Una sottovalutazione incomprensibile per un settore di attività sociali ed economiche che interessa milioni di cittadini, occupa direttamente 680 mila dipendenti e 270 mila lavoratori esterni, e in cui operano oltre 4 milioni mezzo di volontari. Un settore che riguarda la natura del nostro welfare e quindi diritti sociali da garantire, il ruolo del volontariato, la partecipazione attiva e responsabile dei cittadini come componente essenziale della stessa democrazia.
Quotidiani e riviste hanno dato poco risalto al tema,eccezion fatta per il Fatto Quotidiano, che ha pubblicato negli ultimi mesi alcuni autorevoli interventi, concentrati, finalmente, sul punto cruciale della riforma: quello che riguarda l’impresa sociale.
Perché è sulla disciplina dell’impresa sociale che il disegno di legge finora ha introdotto le modifiche più rilevanti, e non certo positive. Anche se va riconosciuto il fatto che sull’impresa sociale serve intervenire: non è “decollata” dopo la sua istituzione con il decreto legislativo 155 del 2006 e anche allora fu colpevolmente trascurato il tema del lavoro.
Come abbiamo detto nel documento unitario Cgil Cisl Uil, nel testo in discussione al Senato “la disciplina sull’impresa sociale ne rafforza il ruolo commerciale - indebolendone così le finalità sociali - attraverso la scelta di derogare al principio generale di non lucratività, tipico del terzo settore, prevedendo la possibilità di remunerazione del capitale e di distribuzione degli utili e la possibilità di accedere a forme di raccolta di capitali a rischio”. Si allarga così la possibilità di agire per imprese profit, con il rischio irrompano logiche di mercato nei servizi del welfare, già duramente colpiti dai tagli alla spesa per la protezione sociale. La Camera ha cercato di ridurre questo rischio, introducendo limitazioni analoghe a quanto previsto per la cooperazione, ma i vincoli posti sono troppo deboli e non stringenti.
Nel testo sono poi clamorosamente omessi la partecipazione e i diritti dei lavoratori nella vita dell’impresa sociale, come elementi costitutivi e premianti l’impresa stessa. Che invece devono essere riconosciuti con strumenti adeguati: diritto all’informazione, alla consultazione, alla contrattazione, previsione di clausole sociali. Infine è a dir poco contraddittoria la possibilità per amministrazioni pubbliche e imprese private profit di rivestire cariche sociali nell’impresa sociale.
Come giustamente scrive don Armando Zappolini per il Cnca “La proposta di legge (…) investe e si concentra sull'impresa sociale, un soggetto giuridico che, nell'idea del legislatore, sia capace di sintonizzarsi con il profit e per il profit a cui appaltare rilevanti risorse e attività dello stato sociale. Con questa impostazione finiscono per avere un ruolo marginale il volontariato, l'associazionismo e in particolare la nostra storia di cooperazione sociale, che rappresenta un patrimonio positivo per tutto il paese e che invece dovrebbe essere utilizzata come fondamento per la ricostruzione di un nuovo patto sociale. Non possiamo accettare la visione paternalistica che unisce l'enfasi della 'bontà del dono' alla logica del profitto, dell'impatto sociale con la distribuzione degli utili!". Altrettanto forte e largamente condivisibile è la denuncia di Luca Fazzi nel suo intervento “Le gambe corte dei nuovi rottamatori”.
Il punto è proprio questo: perché offrire alle imprese con finalità di lucro le stesse agevolazioni e possibilità delle imprese sociali ? È questa la via per rilanciare l’impresa sociale come soggetto originale e del tutto peculiare rispetto alla forma tradizionale d’impresa ? O non è piuttosto un cedimento strutturale a logiche di mercato, del tutto legittime intendiamoci, ma che sono notoriamente fallimentari in questi campi di intervento che si propongono di agire per l’inclusione e la giustizia sociale. Come abbiamo detto più volte (vedi audizione Cgil Cisl Uil), la qualifica di impresa sociale va assunta sulla base delle finalità sociali, delle attività e del modello organizzativo. Definire sociale una impresa solo per il settore nel quale opera non è sufficiente a determinarne un profilo peculiare e una funzione di chiara utilità sociale.
Per questo abbiamo apprezzato l’intervento di Vincenzo Manes, consigliere pro bono del presidente del Consiglio per il terzo settore, soprattutto laddove si propone di fugare una volta per tutte il sospetto che “l’intenzione retrostante alla nuova legge consista nell’aprire al capitale le praterie del settore sociale, perché possa lanciarsi nelle sue scorribande speculative”. E quando conclude che “gli utili vanno interamente investiti nell’impresa sociale stessa ovvero redistribuiti in misura minima, con percentuali che non lascino dubbi riguardo al fatto che l’obiettivo non è il ritorno finanziario. Basterebbe infatti il sospetto che gli investimenti nel sociale possano essere un’altra forma che la finanza sfrutta a vantaggio di pochi per decretarne il fallimento”.
In questo senso va anche la riflessione del senatore Lepri (relatore del DdL): “Il ddl delega innova profondamente sul tema dell’impresa sociale, ma è evidente come tali flessibilità e vantaggi vadano accompagnati da una rigorosa finalizzazione solidaristica e civica, da misurare nella sua efficacia, che deve assicurare anche un limite nella remunerazione del capitale sociale. Diversamente si rischia di snaturare il terzo settore e di aprire a comportamenti opportunistici. La proposta è quella di adottare un vincolo nonprofit stringente anche se non assoluto, identico e quindi semplificato per chiunque operi nella produzione e nello scambio di beni e servizi di utilità sociale con pubblico beneficio”.
Ora ci aspettiamo negli emendamenti che saranno approvati scelte coerenti con queste riflessioni. Perché se può essere utile attrarre investimenti privati per il sociale non è accettabile, né sarebbe conveniente, che ciò avvenga con un arretramento delle responsabilità e delle funzioni pubbliche e peggio ancora con un’“esclusiva” delle imprese (sociali o profit) nella produzione di servizi. I sostenitori del welfare society sanno bene che non è un welfare con meno Stato (istituzioni pubbliche), anzi ne reclama un ruolo più autorevole e democratico.
* Responsabile Sanità e Terzo Settore Cgil nazionale