La vertenza Ilva sembra ormai una grossa matassa fumosa della quale non si comprende né il capo né la coda. Una confusione che nonostante il tempo passato dal 2012, quando esplose con tutta la sua forza la notizia dell’inchiesta giudiziaria “Ambiente Svenduto”, non accenna a diminuire. Una confusione che più passa il tempo più assume i contorni di una scelta strategica decisa proprio per evitare che la matassa si dipani. Per averne un’idea basti considerare i diversi fronti attualmente schierati nella vertenza, a cominciare dal governo, nei fatti proprietario dell’azienda, ma avversato da Regione Puglia e Comune di Taranto, che hanno fatto ricorso al Tar contro l’ultimo dpcm.

Nella partita c’è poi Arcelor Mittal, assegnataria dell’azienda che, come primo provvedimento, annuncia quattromila esuberi: certo non la mossa migliore per rasserenare gli animi. E, naturalmente, i sindacati che hanno risposto con un riuscitissimo sciopero generale e che attendono ancora il piano industriale e quello delle ambientalizzazioni. Lo stesso attendono le associazioni ambientaliste tarantine che spingono per chiudere l’azienda. Infine, un po’ defilata, ma sempre presente, Confindustria (in particolare la rappresentanza tarantina), che deve difendere gli interessi delle imprese dell’indotto, notoriamente monocommitenti Ilva. Non dimentichiamo che alla partita partecipano però anche l’Ue, con l’Antitrust, e che è appena entrata in campo la Cassa depositi e prestiti.

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Un bel pasticcio, insomma, aggravato dai numeri dei lavoratori coinvolti e dalla necessità di risanare e ambientalizzare l’acciaieria, a cominciare dalla copertura dei parchi minerali che, quando c’è la tramontana o il maestrale, diffondono nei quartieri intorno all’acciaieria una polvere letale.  Provare a mettere ordine è il primo passo necessario per immaginare come andrà avanti la trattativa, che riprende proprio il 20 dicembre prossimo. Il primo passo potrebbe essere, ad esempio, smettere di accettare la dicotomia tra lavoratore e cittadino, il primo con interessi contrastanti rispetto al secondo.

Paolo Peluso, segretario generale della Cgil jonica, dal palco dell’ultimo attivo – alla presenza della segretaria Fiom Re David e di Maurizio Landini – l’ha spiegato con pacatezza: “Bisogna rimettere al centro il lavoratore”, che per un sindacalista dovrebbe essere cosa scontata ma nella vicenda Ilva il fumo confonde anche la mente dei più saggi. Se si garantirà al lavoratore Ilva un ambiente di lavoro sano e salubre, sicuro, di conseguenza lo sarà anche per i cittadini tarantini. Rimettere al centro il lavoratore, significa anche cercare quella lucidità per trattare la vertenza come qualunque altra, senza perdersi in inutili formule per cercare la giusta alchimia tra ambiente e lavoro.

“Ambiente è lavoro”, potrebbe essere la sintesi, perché il cambiamento può avvenire solo dall’interno della fabbrica. Rimettere al centro il lavoratore significa, però, ridare al lavoratore quella dignità che nelle vicende attuali sembra aver perso, visto troppo spesso dalla pancia della pubblica opinione quasi come complice del disastro ambientale – e non invece vittima egli stesso del ricatto occupazionale di un territorio che non ha saputo emanciparsi dall’acciaio –, o più semplicemente colpevole di non pretendere il rispetto delle più semplici regole.

Ripartire dal lavoratore potrebbe anche voler dire accettare come dato di fatto che è stato lo sciopero generale a dare una sterzata alle trattative e che i lavoratori ancora contano. “Tutti tendono a sminuire il ruolo dei lavoratori – ha detto Re David nel corso dell’attivo tarantino –, epppure proprio la Fiom ha preteso che alla trattativa intervenissero gli enti locali, fino a prima non coinvolti”. Il fatto è che è stato più veloce Emiliano a presentare il ricorso al Tar e prendersi un po’ di meriti, quando invece il suo compito di governatore della Puglia sarebbe quello di pretendere che il governo rispetti le leggi regionali. I lavoratori, quindi, devono ritornare a essere la misura reale della vertenza, carne e sangue esposta al lavoro, in una fabbrica, quella di Taranto, dove tutto sembra procedere al di là di ogni ragionevole regola e legge, nonostante essa sia effettivamente in mano allo Stato.