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The day after. Alla fine il diavolo chiede il conto, ma perché il patto sia stato validamente stipulato occorre che il sottoscrittore abbia agito con coscienza e volontà. I tarantini invece, artigiani e contadini del mare, per dirla con De Cataldo, non intrepidi navigatori, hanno barattato inconsapevolmente il loro diritto alla dignità, alla salute e alla vita con la parvenza di un facile benessere economico.
Sino a qualche giorno fa, sulle vetrine delle tante società finanziarie che affollano la città, si poteva leggere: prestiti solo a dipendenti Ilva e statali. Non casualmente: finora lo Stato e l’Ilva, infatti, hanno sempre pagato lo stipendio. Ma solo lo stipendio, non tutti i loro debiti nei confronti dei dipendenti e dei cittadini. Le risultanze delle perizie epidemiologiche e chimiche disposte dalla procura e dal giudice delle indagini preliminari in sede di incidente probatorio non hanno lasciato altra scelta alla autorità giudiziaria: al di là di ogni considerazione socioeconomica il sequestro degli impianti doveva essere disposto.
Solo quando l’impresa è stata costretta da provvedimenti legislativi ad hoc (vedi la recente legge regionale anti diossina) o da analoghi provvedimenti amministrativi/giudiziari (vedi il pregresso provvedimento di sequestro di alcune batterie della cockeria), ha messo veramente mano al portafoglio ed eseguito le – limitatissime e circostanziate ai provvedimenti – ristrutturazioni ecocompatibili; tant’ è che le emissioni di diossina – solo uno dei molteplici inquinanti oggetto dell’inchiesta – oggi sono state ridotte, pare, del 90%, dopo avere avvelenato falde acquifere, campi coltivati e gli abitanti della città per svariati decenni.
Il sequestro degli impianti era un provvedimento annunciato sin dal 30 marzo di quest’anno, quando si è concluso l’incidente probatorio. Da allora Taranto non ha ricevuto una parola di scuse da nessuno, né dichiarazioni di buoni intenti né le fattive promesse né i finanziamenti (ridicoli e miserrimi al confronto di quanto si è speso per Marghera) che solo dopo il sequestro un po’ tutti si sono affrettati a disporre. Perché gli impianti, allora, non avrebbero dovuto essere sequestrati? Dal 30 marzo ad oggi, secondo le proiezioni statistiche degli elaborati peritali, sono morte dieci persone (un terzo dei trenta morti per anno a ciò ascritti) a causa delle emissioni inquinanti dell’Ilva, sei persone si sono ammalate di tumore (un terzo dei diciotto casi all’anno), sei persone si sono ammalate e sono state ricoverate in ospedale per eventi coronarici (un terzo dei diciannove casi all’anno) e venticinque si sono ammalate e sono state ricoverate per patologie respiratorie. In quattro mesi, da quando è stato chiuso l’incidente probatorio.
Si rammenti inoltre che quella che ci occupa in questi giorni non è la prima perizia chimicoepidemiologica disposta dalla procura. L’esposizione a benzene e ammine aromatiche dei dipendenti dell’Ilva era già provata giudizialmente nella sentenza del tribunale penale di Taranto n. 408 del 20 aprile 2007, ove si legge, testualmente: “5) in particolare, relativamente agli inquinanti più pericolosi, ovvero polveri, benzene ed ipa (idrocarburi policiclici aromatici, ndr), i parametri di riferimento unanimemente adottati dalla comunità scientifica, i cc.dd. ‘Tlv’ elaborati dall’associazione dei medici igienisti industriali americani (‘Acgih’), erano risultati superati in molte occasioni, anche per vari ordini di grandezza; 6) negli escreti dei lavoratori si era rinvenuta, in misura significativa, la presenza di metaboliti tipici degli ipa, con conseguente rischio di gravi conseguenze sanitarie (...)”.
Il foro della sezione lavoro del tribunale di Taranto conosce da tempo una varia casistica che contribuisce alla costruzione di una vera e propria epidemiologia dei danni da ipa e in particolare da benzo(a)pirene, amianto e cadmio. Sono stati promossi da tempo, inoltre, due importanti processi a carico di numerosi componenti del consiglio di amministrazione, amministratori delegati e alti dirigenti dell’Ilva Spa, imputati dei reati di omicidio colposo plurimo aggravato, disastro ambientale e omissione colposa di cautele, in una vicenda che riguarda il decesso per tumore di sedici dipendenti dello stabilimento siderurgico di Taranto a cagione delle più varie neoplasie ascrivibili al mix di sostanze cancerogene che si sprigionano dagli impianti di Taranto – la prossima udienza si terrà il 23 novembre 2012 –.
Il secondo processo “tumori”, a carico anche della gestione privata dello stabilimento, che concerne quindici decessi solo per mesoteliomi e carcinomi polmonari per esposizione al rischio da amianto, si terrà in sede dibattimentale il prossimo 3 ottobre 2012. Il capo di imputazione è stato confermato dal decreto del Gup n. 3390/10 R. Gip. Il primo di questi processi è connotato dalla individuazione dell’aggravante a carico degli imputati del compimento del reato per futili motivi, detti motivi identificati nel “profitto”, ossia nella mancata considerazione della salute dei lavoratori pur di realizzare un risparmio nei costi di produzione.
È veramente sorprendente, pertanto, che mentre il governo Monti oggi si affretta a rivedere la autorizzazione integrata ambientale, l’esecutivo precedente, solo un paio di anni fa, quando quei processi erano già pendenti, abbia emanato il decreto n. 155 del 13/8/2010 abrogando il dlgs 152 del 2007 che, sulla scorta dei parametri individuati nel decreto ministeriale del 25 novembre 1994, fissava a partire dal 1° gennaio 1999 un valore da non superare per il benzo(a)pirene, il cadmio, il nichel e l’arsenico nelle città con più di 150mila abitanti imponendo un dovere di intervento in caso di sforamento di tali limiti.
Adesso, sino al 31 dicembre 2013, la diffusione di tali sostanze può superare il valore massimo di legge (1 ng/m3) senza che scattino provvedimenti obbligatori. Vi è di più: qualora per tale data le tecnologie per ridurre le emissioni fossero troppo costose, in rapporto ai bilanci aziendali, sono ammissibili ulteriori deroghe. I tarantini dovrebbero allora fidarsi delle promesse? O è meglio mettere un punto fermo: la produzione siderurgica può continuare solo se si allinea ai parametri europei, non in quattro anni, come qualcuno prevede e promette, ma subito?
La magistratura non condivide, alla luce dei diritti costituzionali inderogabili, la sacrificabilità del diritto alla salute dei lavoratori dinanzi all’utile di bilancio, per cui anche le disposizioni del legislatore ordinario o della autorità amministrativa non valgono a garantire l’impunità. Le emissioni dello stabilimento Ilva devono essere ridotte al minimo, secondo condizioni di fattibilità tecnica e non economica. La produzione e il lavoro devono e possono continuare solo in un’ottica di concreto risanamento ambientale, così predisponendo l’immediata copertura dei parchi minerali, delle linee di trasporto dei minerali e un’accurata vigilanza sul funzionamento e sull’efficacia dei filtri delle ciminiere e del sistema di deflusso dei fanghi di acciaieria.
* Coordinatore consulenza giuridica salute e sicurezza Fiom nazionale, consulente Inca nazionale, avvocato Fiom e Inca di Taranto