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A parte pochi casi virtuosi, non esiste in Italia una vera politica per il libro, un sistema che riesca a mettere in rete il lavoro delle biblioteche, capace di considerare gli scrittori un bene comune, utilizzarli come risorse per azioni di cittadinanza attiva. Un progetto che dia agli scrittori la possibilità di svolgere come in altri Paesi europei un ruolo sociale e poter vivere del proprio lavoro. Questo significa parlare dei propri libri, tenere conferenze, docenze nei corsi di scrittura, dibattere sui temi della contemporaneità.
Domina invece un sistema caotico, a macchia di leopardo, fatto di festival più o meno effimeri e spettacolari, dove prevale – per logiche numeriche di consumo – il mercato. La cosiddetta editoria di cultura, quella che crea e sviluppa senso critico, una lettura diversa e profonda delle trasformazioni sociali – la saggistica, il giornalismo d’inchiesta non spettacolare, il reportage narrativo, la letteratura di ricerca e la narrativa di qualità, la poesia –, di fatto è schiacciata e marginalizzata in un limbo.
Questo comporta che gli scrittori, i quali mettono al centro del proprio lavoro una forte vocazione civile, accompagnata da un altrettanto forte impegno sul piano letterario, perdono il loro ruolo, stentano – a parte casi molto rari – a entrare in quello che resta del dibattito collettivo, quando c’è. Soprattutto quelli che trattano temi assolutamente rimossi, come il lavoro e i suoi conflitti, le sue disumanizzazioni, le nuove precarietà e povertà prodotte dai processi di globalizzazione. Seppure c’è una ripresa di autori che trattano temi civili – lo dico dall’osservatorio del Premio Paolo Volponi, l’unico interamente dedicato alla letteratura di impegno civile – e che vorrebbero esercitare pubblicamente il proprio ruolo, tornare a essere autori, testimoni del proprio tempo, coscienze civili.
Per questo mi auguro che la Rete delle biblioteche del lavoro, attive in ambito Cgil e coordinate a livello nazionale dalla Fondazione Di Vittorio, possa dare spazio nel tempo a questi scrittori, molti dei quali sono coinvolti in un tentativo di ripresa dell’attività nella sezione scrittori all’interno della Slc: penso naturalmente a Simona Baldanzi, penso agli importanti reportage epocali di Alessandro Leogrande, tragicamente scomparso solo alcuni giorni fa, penso a scrittori civili come Franco Arminio, ai libri bianciardiani di Stefano Valenti, penso ai Wu Ming e Nadia Terranova, al lavoro sul colonialismo e l’immigrazione di Igiaba Scego, tra gli altri. Scrittori che trattano temi oggi più che mai necessari e spesso intrecciati tra di loro, come lavoro e immigrazione, spopolamento delle aree interne, nuove povertà, mondo digitale, storie della Storia del nostro Paese che meritano di essere rivisitate criticamente.
Io stesso potrei considerarmi una specie di prototipo di scrittore che ha avuto un rapporto costante con la Cgil, a cominciare da un colloquio in occasione del Centenario – insieme a Bajani e Desiati – con Guglielmo Epifani al FestivaLetteratura di Mantova nel settembre del 2006. Pochi mesi prima, il 25 maggio, Bruno Trentin pronunciava il suo ultimo discorso proprio a Fermo, dove vivo, parlando del mio libro “Le risorse umane”. E anche in questi mesi, in questi giorni, sto lavorando insieme al fotografo Giovanni Marrozzini a un libro reportage sui luoghi del terremoto del Centro Italia, che Ediesse pubblicherà prossimamente.
Credo di interpretare un sentimento comune ad altri scrittori nel dire che molti di noi hanno cercato e avuto un rapporto con il sindacato perché credono che con esso si possa fare lavoro culturale e, soprattutto, svolgere un ruolo politico nei confronti di un pubblico che ci interessa. La questione, secondo me, riveste una certa importanza.
In questa direzione, nel maggio 2007 feci per Rassegna Sindacale, con cui avevo iniziato una collaborazione che ancora dura, un reportage a Ravenna in occasione del 20° anniversario della più grande tragedia operaia del dopoguerra, che poi diventò il primo nucleo di quello che considero il mio libro più riuscito, “Il costo della vita”, uscito da Einaudi nel 2013. Questo anche per dire come il mio rapporto di reciprocità con il sindacato abbia prodotto concretamente lavoro di scrittura. La stessa cosa è successa con “Di Vittorio a memoria” a 50 anni dalla sua morte, un lavoro fatto, ancora per Rassegna, insieme al leggendario fotografo Mario Dondero.
Sempre nel 2007 curai per Ediesse le “Poesie operaie” di Luigi Di Ruscio, che non solo riportò questo scrittore – per trent’anni operaio metalmeccanico a Oslo, in Norvegia – in libreria, ma fu il preludio per un’esperienza editoriale straordinaria, “Carta bianca”, una collana di libri no-fiction che è un po’ un prolungamento della mia attività di reporter, dove ho cercato di costruire anche la mia idea di letteratura sociale, che accetta la sfida di raccontare la realtà e di coinvolgere anche gli scrittori non professionisti (era l’idea dei “Franchi narratori” Feltrinelli, che lanciò tra gli altri Gavino Ledda), più o meno quello che fa anche lo Spi con il Progetto memoria e il Premio LiberEtà, dei quali sono uno dei giurati.
Della collana “Carta bianca” sono stati pubblicati, dal 2008 al 2015, 40 libri. Di Luigi Di Ruscio uscirono anche “Palmiro” e “La neve nera di Oslo”. L’impegno di Ediesse e della nostra collana ha fatto sì che questo scrittore fosse riscoperto: senza non ci sarebbe stato “Romanzi”, il volume di oltre 500 pagine con tutte le sue prose pubblicato da Feltrinelli, così come la traduzione in Francia, presso Anacarchis, dei suoi maggiori libri di narrativa e l’imminente uscita delle Poesie scelte da Marcos Y Marcos. La collana ha avuto una sua vitalità, pubblicando molti reportage narrativi, anche collettivi, dal “Mugello sottosopra” di Simona Baldanzi a “Oratorio bizantino” di Franco Arminio, all’inedito “Parlamenti” di Paolo Volponi, a “Da Roma a Roma” di Andrea Carraro, a “Si sente in fondo?” di Lorenzo Pavolini, ma anche libri di storici come Angelo D’Orsi, urbanisti, antropologi, giornalisti d’inchiesta, l’antologia sulla scuola e quella con i racconti degli scrittori stranieri che vivono in Italia (“Permesso di soggiorno”), libri che hanno raccontato storie italiane di forte urgenza, morale e sociale.
Pensavo ottimisticamente che la grande rete della Cgil, le tante strutture presenti sul territorio avrebbero supportato in maniera decisiva il nostro lavoro, ma purtroppo così non è stato. Siamo riusciti a organizzare momenti e occasioni di confronto, ma in maniera troppo episodica, non strutturata. La speranza è che sulla scia dell’incontro promosso a Pistoia lo scorso 23 novembre dalla Fondazione Di Vittorio con l’intento di fare il punto sull’attività delle Biblioteche del lavoro, possa rafforzarsi un rapporto, quello tra scrittori e sindacato, che ha già dato tanti importanti risultati.