PHOTO
L’andamento della stagione contrattuale vede ancora circa 5 milioni di lavoratori – tra cui 3 milioni di dipendenti pubblici – in attesa di rinnovo. Un’attesa che riguarda la definizione di 36 ccnl (di cui 15 appartenenti alla pubblica amministrazione) e che, secondo i dati Istat, ha raggiunto il livello record di quasi 5 anni. A spezzare la monotonia di una tornata senza apparenti sbocchi negoziali – almeno a giudicare dalle misure adottate dal governo, così come dalle dichiarazioni di autorevoli esponenti di Confindustria –, hanno contribuito di recente due avvenimenti: l’accordo per il contratto dei chimici e l’approvazione da parte dell’Assemblea nazionale dei delegati Fiom della piattaforma per il rinnovo dei meccanici.
“Per cultura e per tradizione non impugniamo mai la matita rossa o blu per correggere i compiti altrui – commenta Franco Martini, della segreteria confederale Cgil e responsabile dell’area contrattazione –. Esiste in noi un forte rispetto dell’autonomia delle categorie e del voto delle lavoratrici e dei lavoratori, che decideranno se approvare le intese o meno. Nel caso dei chimici possiamo dire che quell’intesa contiene la difesa del contratto: ciò per cui, in buona sostanza, ci siamo sempre battuti, a fronte del tentativo di cancellarne la funzione. Poi, sia i chimici nell’intesa realizzata, sia la Fiom nella piattaforma rivendicativa, con la proposta del salario annuale, hanno individuato soluzioni diverse – nel caso della Fiom, ovviamente, si tratta solo di una proposta – per quanto concerne la questione salariale”.
Rassegna In entrambi i casi, soluzioni o proposte attagliate alle realtà specifiche, in nessun modo definibili come “elementi di modello contrattuale”…
Martini È così. Non disponendo di un modello generalizzato, si conferma il fatto che ogni categoria, in materia economica, cerca di risolvere la questione della difesa e dell’aumento del potere d’acquisto dei salari con soluzioni proprie, non necessariamente esportabili in altri settori. Anche per questo, bisogna fare attenzione a dire che l’accordo dei chimici apre automaticamente la strada a tutti gli altri settori, perché già sappiamo che in alcuni casi questo non potrà essere.
Rassegna Un ruolo da apripista non agevolato certo dall’accoglienza, a dir poco fredda, riservata al contratto dei chimici da parte di settori non marginali dell’associazione industriali. Come te la spieghi tanta contrarietà?
Martini Lo accennavo prima. Se da un lato le valutazioni di parte sindacale, a cominciare dalla Cgil, non potevano che mettere all’attivo della nostra iniziativa quel risultato, in quanto confermava il ruolo del contratto nazionale, anche nel determinare la dinamica dei minimi, dall’altro invece abbiamo assistito a reazioni molto negative. L’accordo dei chimici veniva criticato in quanto si configurava come una sconfessione delle posizioni sostenute da Confindustria fino a quel momento, riproponendo il “vecchio” schema.
Rassegna Quanto pensi possa interferire, sull’andamento altalenante del negoziato per la riforma contrattuale, la vicenda della prossima successione di Squinzi al vertice di viale dell’Astronomia?
Martini Appare evidente che le vicende interne all’associazione sono condizionate dalla successione alla presidenza di Squinzi, e se un’eventuale intesa sul modello contrattuale – ispirato a un significativo ridimensionamento del ruolo del ccnl e, conseguentemente, dei sindacati – poteva rappresentare un risultato da gettare nella bagarre sulla successione, l’accordo dei chimici butta all’aria questo disegno: proprio da qui può derivare lo scarso interesse del presidente di Confindustria a insistere sulla partenza del tavolo. Non a caso ha ripetutamente dichiarato di considerare archiviato il confronto.
Rassegna E infatti l’interesse di Confindustria sembra oggi in gran parte teso alla riproposizione dell’antico nesso tra produttività e ore di lavoro, esaurendo in questo assioma la sfida più importante che il sistema industriale italiano ha di fronte per provare ad agganciare la ripresa.
Martini Non c’è dubbio. Per questo sosteniamo che la conseguente proposta di considerare il salario una variabile dipendente della produttività, immaginando le erogazioni “a valle” della produzione di ricchezza, assomiglia più a una riedizione in chiave contemporanea del vecchio cottimo, piuttosto che a un’innovazione, con l’inevitabile conseguenza di schiacciare verso il basso i livelli medi dei salari. Per tale motivo non abbiamo condiviso l’enfatizzazione con la quale si è rappresentata l’esigenza di spostare decisamente il baricentro della contrattazione verso il secondo livello. Per tale motivo, ma non solo…
Rassegna A cosa ti riferisci?
Martini Intanto, gli accordi sottoscritti dopo il 2009 confermano un modello fondato sui due livelli, e il secondo livello di contrattazione, almeno nell’architettura contrattuale, esiste già da molti anni. La crisi ne ha ristretto l’esercizio e, sicuramente, anche la qualità, poiché i contenuti sono stati di natura prevalentemente difensiva. Ma il punto non è quello della maggiore o minore “vocazione” al secondo livello. Da parte nostra, esiste ed è sempre esistita una piena consapevolezza della necessità di implementare questa pratica contrattuale, anche per avvicinare la contrattazione ai processi organizzativi. Il punto è un altro: sostenere che la dinamica incrementale dei salari è vincolata alla produttività, negoziata al secondo livello, significa estromettere i quattro quinti della platea che non esercitano tale livello, in alcuni casi interi settori. Pensare di sopperire questo dato della realtà con l’elemento di garanzia, erogato a coloro che non esercitano il secondo livello, sapendo che tale elemento non potrà mai rappresentare un fattore di equo riequilibrio, significa alimentare un pericoloso fenomeno di dumping tra le imprese, oltre a condannare una parte vasta del sistema a una bassa produttività, per effetto dei bassi salari.