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Sarebbe un errore considerare il “pasticciaccio brutto” della riforma costituzionale più la legge elettorale avulso dalle (contro)riforme economice e sociali da tempo in corso in Italia e nel mondo occidentale. È noto, ormai, come dal finire degli anni settanta con l'era della signora Tathcher e di Reagan, sia iniziata la rivincita conservatrice e “cosiddetta” neoliberale, perché di liberale (né tantomeno di liberista) non c’è nulla.
Un grande politico democratico, Franklin Delano Roosevelt, aprì un’intensa stagione riformatrice riaffermando la supremazia della politica, mettendo al guinzaglio i poteri economici a cominciare da quelli finanziari, rivalutando i diritti e le condizioni economiche del mondo del lavoro e rafforzando i sindacati, e dicendo la verità ai propri cittadini sulle gravi condizioni del Paese e, nel contempo, suscitando la fiducia che, con il concorso solidale di tutti, si sarebbe potuta vincere la battaglia.
Ristabilì, Roosevelt, la dialettica sociale e istituzionale tra il Big Government, il Big Business, il Big Labour, in una visione dell'interesse collettivo garantito da un nuovo ruolo assegnato al governo federale, che si aggiungeva e non si sostituiva a quelli dei singoli Stati. Un ruolo necessario per poter controllare il potere delle grandi corporation che travalicavano i confini dei singoli Stati. Una lezione niente affatto seguita nell’ultima grave crisi del 2008 e che ancora si trascina ai giorni d’oggi. Il potere economico e finanziario ha sussunto gli stessi Stati nazionali e mortificato il mondo del lavoro.
L’incredibile sperequazione dei redditi e della ricchezza e le condizioni del mondo del lavoro sempre più precarizzato sono il frutto delle cosiddette (contro)riforme che hanno messo al centro le esigenze di un’impresa finanziarizzata, alla ricerca di valorizzazione patrimoniale in Borsa e non della produzione, invece di mettere al centro la persona umana. Trattando la persona umana come mero strumento, “usa e getta”, non solo di fatto, ma persino con l’attuale quadro giuslavoristico, anziché come un fine, secondo la lezione di Immanuel Kant.
Si confonde spesso la crescita con lo sviluppo civile, che non sono ovviamente la stessa cosa, né necessariamente si muovono in direzione simmetrica. Quest’ultimo richiede il rifiuto dello scambio (trade-off) tra equità ed efficienza sul piano economico e un pari rifiuto dello scambio tra democrazia ed efficienza sul piano politico. È una lezione fondamentale che ci viene da Federico Caffè e da Guido Calogero.
Il primo, pur concordando con Luigi Einaudi che le libertà (civili, economiche, politiche) sono solidali, avverte che non ci sollevano comunque dalla responsabilità per un’azione consapevole di miglioramento sociale. Il filosofo liberalsocialista ci ricorda invece che “la più solida democrazia è fondata sulla pluralità delle democrazie” (industriale, economica, sociale, politica) e che “senza eliminazione degli squilibri di potenza economica non c’è vera libertà politica, e senza la garanzia delle libertà politiche non c’è neppure la possibilità di sapere se la giustizia economica sia reale o illusoria”. Sono concetti ben presenti nelle Costituzioni sorte dal secondo dopoguerra, compresa la nostra. Si capisce dunque bene come i poteri dominanti le vedano come l’ultimo ostacolo ai loro obiettivi. Il libello della J.P. Morgan cpntro le Costituzioni dei Paesi mediterranei è esplicito e rivelatore. Non c'è bisogno di scendere in dettagli, ma basti ricordare quanto segue.
• L’articolo 41, quando riconosce la libertà dell’iniziativa privata, purché non contrasti con l’interesse generale e gli altri articoli che trattano del lavoro dignitoso per configurare una concezione di impresa come “bene comune”; tale la considerava per esempio un imprenditore illuminato come Adriano Olivetti.
• L’articolo 47, che prevede la disciplina, il coordinamento e il controllo dell’esercizio del credito da parte della Repubblica, oltre che incoraggiare e tutelare il risparmio in tutte le sue forme. Oggi avviene il contrario.
• Gli articoli 42 e 45, che delineano un sistema economico pluralistico, in cui convivano imprese private, pubbliche, cooperative e di proprieta di comunità locali; purché siano veramente tali, il che spesso non avviene. E tutte le politiche sono indirizzate oggi a favorire l’unico modello di impresa privata finanziarizzata.
La “desertificazione dei luoghi”, con disoccupazione e diffuso impoverimento nei Paesi industrializzati e con sfruttamento della mano d’opera di quelli arretrati, è la conseguenza delle concezioni e delle politiche dominanti. Ma occorre che le crescenti diseguaglianze e sofferenze e le proteste conseguenti non debbano trovare adeguata rappresentanza politica. E così riforme costituzionali e leggi elettorali sono finalizzate a ridurre quella rappresentanza, lasciandola semmai a forze politiche estremiste e quindi fuori gioco o che si pensa di strumentalizzare con derive ancor più conservatrici e autoritarie.
In tale contesto, i partiti socialdemocratici europei e lo stesso Pd americano avrebbero dovuto e potuto rappresentare elettivamente tale sofferenze con un modello alternativo all’attuale, che, come ho accennato, avrebbe potuto trarre ispirazione dalla lezione rooseveltiana, ma soprattutto dalla nostra Costituzione, nei suoi principi, e dal suo programma (inapplicato) di democrazia progressiva. Hanno clamorosamente fallito.
Nel nostro Paese, in occasione del dibattito sul “pasticcio” della riforma costituzionale più la legge elettorale, sono ricomparse tutte le nostre antiche tare del trasformismo e del “particulare”. Si assiste al soccorso in massa al (presunto) vincitore; a parlamentari eletti con un programma e con un partito transitare in altri programmi e in altri partiti; a intellettuali, artisti e politici che ieri trovavano la nostra Costituzione la più bella del mondo e ora dicono che solo la prima parte è la più bella, dimenticando che la seconda deve essere coerente con la prima, come ricordò Tina Anselmi, secondo i “concetti di sussidarietà, dell’interdipendenza e della solidarietà” (Lectio magistralis sulla democrazia, Università di Trento, facoltà di Sociologia, 30 marzo 2004); ad altre “autorevoli” personalità che non si pronunciano o si devono ancora informare.
E così industriali, banchieri, associazioni economiche e professionali, artisti, per non parlare di giornalisti, sempre bisognosi di aiuti, incarichi e sovvenzioni, si affollano a sostegno del governo, insieme alla finanza internazionale, in attesa anch’essa di lucrosi affari agevolati dalla nuova riforma del titolo V. In un’Italia da tempo venduta a pezzi e a prezzi di favore. Politica interna e politica estera sono incredibilmente strumentalizzate da mesi per raccogliere consensi al sì. Ma, come nella fiaba di Cenerentola, l’incantesimo, quale che sia il voto, finirà a mezzanotte (del 4 dicembre).
E non va dimenticato nemmeno il maggior successo della nostra diplomazia, forse dopo quelli di Cavour, tutta mobilitata a raccogliere appoggi esteri alla riforma. Assistiamo alla replica della mortificante storia già disprezzata dal Manzoni nell’Adelchi, quando si chiedeva l’intervento estero per risolvere le contese interne. Dimenticando che “col novo signore rimane l'antico”.
Mai alcun Paese è stato oggetto di tante intolleranti ingerenze e su un tema di tale importanza, e per giunta sottoposto a imminente consultazione popolare. Anzi, sollecitate dal presidente del Consiglio, e nel silenzio inaccettabile dei massimi vertici dello Stato, che hanno certificato la nostra condizione di sereno vassallaggio.
Si ripete la ricerca dell’uomo forte, del salvatore della patria, dell’uomo della provvidenza che diventa presto il capro espiatorio di cui altri ci liberino, in un processo di continua deresponsabilizzazione. La scomparsa dei partiti, con la loro funzione precipua – e cioè quella di collettori di esigenze reali in una visione coerente, solidale e unificante del Paese – è la vera emergenza; e la riforma più urgente sarebbe quella della loro regolamentazione, come chiesto dalla stessa Costituzione.
Il vento che spira in un Occidente autarchico, intollerante, razzista e xenofobo, consiglia vivamente di difendere assetti istituzionali garantisti ed equilibrati nei contrappesi, e leggi elettorali veramente rappresentative, tanto più in Italia. I padri costituenti, ben conoscendo le nostre antiche tare, si e ci premunirono contro eventuali derive autoritarie. Disse una volta Zagrebelsky che le Costituzioni dovevavo essere predisposte anche per i tempi in condizione di “non sobrietà”.
La vittoria del no lascerebbe aperta la dialettica politica, mentre quella del sì la chiuderebbe; e ancora il no aiuterebbe forse a superare qualche nostra antica tara, mentre quella del sì le consoliderebbe ancora di più. Il premio Nobel Tagore, un vero “poeta costruttore di ponti, anziché di muri”, secondo una bella espressione di papa Francesco (nel discorso ai partecipanti al terzo incontro mondiale dei movimenti popolari, del 5 novembre scorso), già negli anni trenta invitava l’Occidente e l’Oriente a mettere insieme il meglio delle loro culture, basandosi “sull’amore leale per la verità” e “sull’amore attivo per l'uomo”. Di qui occorrerebbe ricominciare.