Secondo Confindustria (ma anche Federmeccanica, Federchimica ecc.) la crisi avrebbe prodotto un effetto paradossale: avrebbe arricchito i lavoratori, in particolare nel manifatturiero, e avrebbe impoverito le imprese, in particolare nel settore metalmeccanico. È chiaro che siamo di fronte a una distorsione evidente, che va immediatamente corretta se si vuole immaginare di aprire un negoziato serio per il rinnovo dei contratti prima, per la riforma del modello contrattuale poi.

Il centro studi di Confindustria sostiene che la quota del lavoro sul valore aggiunto si sarebbe attestata al 76,1% nel 2014, dal 65,6% nel 2001 e dal 77,7% nel 1975. Chi lavora – e già qui verrebbe da chiedersi quanti lavorano e quale sia il peso della disoccupazione in termini di distorsione dell’effetto distributivo del Pil – avrebbe “guadagnato” nella crisi posizioni rilevanti, vicine a quelle degli anni settanta. Insomma ciò che non avrebbe potuto il sindacato all’apice della sua forza l’avrebbe realizzato il sindacato stesso nella sua crisi più profonda o, addirittura, si sarebbe realizzato a sua insaputa. In questa ricostruzione c’è qualcosa che non torna.

Per stessa ammissione del Centro studi di Confindustria il dato deriva da una misurazione del valore aggiunto ai prezzi base e non al costo dei fattori, cioè senza prendere in considerazione tutto ciò che sono imposte indirette – sostanzialmente l’Iva – e, soprattutto, senza prendere in considerazione tutto ciò che va sotto la definizione di trasferimenti alle imprese. Nonostante ciò, secondo il Centro studi Confindustria i dati non varierebbero significativamente.

In realtà, come dimostrato da diversi economisti, il calcolo corretto del valore aggiunto al costo dei fattori indica un andamento, nel rapporto con la quota di reddito destinata al lavoro, profondamente diverso. In particolare, ciò che paradossalmente ha permesso alla quota del lavoro di recuperare un punto nella crisi, attestandosi al 55% del Pil e non al 74,3%, come sostiene il Centro studi di Confindustria, è un andamento della produttività degli ultimi 7 anni, che diminuisce mediamente dello 0,3% annuo, nonostante l’occupazione si sia ridotta in misura più che proporzionale.

Il contributo del capitale per ora lavorata è stato pari a 0,6 punti percentuali nel periodo 2003-2009 e nel 2014 – per la prima volta dal 2006 – il contributo del capitale alla crescita della produttività è diventato negativo (meno 0,5). In realtà, la questione cruciale resta la significativa riduzione degli investimenti da parte delle imprese come caratteristica essenziale della crisi economica italiana: poco più di un terzo del margine operativo lordo si traduce in investimenti e non sempre in investimenti in grado di aggredire la produttività debole delle imprese.

Nel periodo 2013-2014, la quota degli investimenti sul Pil si è ridotta di 3 punti percentuali, a fronte di un incremento di un punto in Germania e di una diminuzione di 0,5 punti percentuali nella media dei paesi europei. Bisognerebbe parlarne. Si attendeva da Confindustria un segnale per poter avviare i tavoli dei diversi settori: se è questo, non è certamente un buon segnale.

 

*Fiom nazionale