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È una grande fortuna, a cinquant’anni di distanza, poter parlare dell’autunno caldo insieme a uno dei suoi protagonisti. Antonio Lettieri, oggi presidente del Centro internazionale di studi sociali, e in passato, tra i molti ruoli ricoperti, segretario confederale nella Cgil di Bruno Trentin, in quei mesi lontani del 1969 era un giovane dirigente nazionale della Fiom. La sua memoria è vivida non solo nei dettagli e negli aneddoti che lo riguardano personalmente, ma soprattutto nel giudizio su quell’epoca straordinaria per il movimento operaio italiano. Un momento – questo il giudizio di Lettieri – più lungo di quanto si possa immaginare, e certo non limitato a quei mesi, dal settembre al dicembre, nei quali si consumò la vertenza dei metalmeccanici che culminò, prima della firma del contratto, con la manifestazione nazionale del 28 novembre a Roma.
“Nella storia del sindacalismo italiano – precisa subito Lettieri – il 1969 è stato interpretato male. Ossia come una stagione straordinaria iniziata in modo inatteso e quasi casuale, durante l’estate, col conflitto alla Fiat, proseguita in tappe di grande drammaticità, incluso l’attentato di Piazza Fontana a Milano, e poi conclusa a dicembre con la firma di un grande accordo per i metalmeccanici che cambiò molti parametri della contrattazione sindacale. Una stagione che si apre e si chiude, climaticamente straordinaria proprio perché calda – mentre l’autunno, generalmente assai vario, tende al freddo e al piovoso –, e che sarà seguita da stagioni nuove e diverse. Credo che questo sia un modo sbagliato di leggere la storia del sindacato italiano. Quella stagione non si chiuse a dicembre, alla vigilia di Natale, con l’accordo sul contratto, ma ebbe le sue propaggini. L'autunno caldo apre un periodo che qualificherà il cambiamento del sindacato e del movimento operaio almeno per i 15 anni successivi. Sorsero molte cose insieme. Quel ‘tempo’ si chiuse solo nel 1984, con la spaccatura tra Cgil, Cisl e Uil sulla scala mobile”.
Facciamo un passo indietro. Tu dov’eri?
“Prima dell’estate ero all’ufficio studi economici della Cgil, dal quale proveniva lo stesso Trentin, che poi era andato a dirigere la Fiom. Mi sembrava però che stessero maturando le condizioni per un anno di svolta, con lotte di carattere generale sulle pensioni e con vertenze importanti nelle grandi aziende. Così ad agosto andai da Trentin e lo informai che intendevo lasciare l’ufficio studi. ‘Vengo qui in Fiom’, gli dissi, ‘ma non voglio occuparmi di politica economica. Questo l’ho già fatto. Vengo a occuparmi di contrattazione sindacale’. A ripensarci fu una coincidenza straordinaria. Entrai alla Fiom il primo settembre. Una settimana dopo ero davanti ai cancelli della Fiat di Torino, dove era stato indetto uno sciopero. La mia prima ‘uscita’ da dirigente effettivo della Fiom fu a Mirafiori. Guarda che lì all’epoca lavoravano oltre 60 mila persone. Arrivai a Torino la sera tardi e andai a casa di compagni, come si faceva quasi sempre allora per risparmiare sulle spese dell’albergo. Dormii sì e no tre, quattro ore. Alle cinque del mattino eravamo davanti ai cancelli Fiat. Non c’era nessuno. Verso le cinque e mezza cominciarono ad arrivare i primi tram: vuoti. Significava che lo sciopero stava riuscendo. Fu quello l’inizio dell’autunno caldo. Ma io certo non potevo immaginarlo. Per me era ‘solo’ il risultato straordinario di un grande sciopero. L’alba di un giorno importante a Torino. Poi venne una vertenza lunga e durissima”.
(Archivio storico Cgil nazionale)
Vuoi riepilogare i punti principali della piattaforma contrattuale dei metalmeccanici?
“La piattaforma aveva tre elementi che erano una novità assoluta. Il primo riguardava la rivendicazione salariale. Chiedevamo aumenti uguali per tutti. Qualcosa di sconvolgente, perché significava dare alle impiegate, al tecnico – il famoso ingegnere nella categoria più alta – e all'operaio della qualifica più bassa lo stesso aumento. La proposta incontrò inzialmente molte obiezioni. Ma noi ci trovavamo a confrontarci con una massa di giovani operai tutti collocati al livello più basso dell’inquadramento. Venivano soprattutto dal Mezzogiorno. Erano emigrati nelle grandi città del Nord e non conoscevano il sindacato. Li incontravi nelle assemblee e ti rendevi conto che non ne sapevano niente. Erano addetti alle mansioni più disagiate, alla catena di montaggio Fiat, alla siderurgia, avevano a che fare col carbone. La nostra rivendicazione egualitaria favoriva proprio loro, le categorie più basse, e fu anche ciò che agevolò il coinvolgimento straordinario di una nuova generazione di operai nelle lotte sindacali. Nel giro di poco tempo la Fiom raggiunse quasi il mezzo milione di iscritti. Erano entrati i giovani. Il secondo elemento della piattaforma riguardava l’orario, le 40 ore settimanali. Adesso può sembrare una cosa qualsiasi, ma all’epoca si lavorava 44, 48 ore, quindi anche questa era una rivendicazione straordinaria. Ma era il terzo punto quello che più impressionava il ‘padronato’ (all’epoca si chiamava così), ossia Federmeccanica e Confindustria: noi chiedevamo il diritto di assemblea. Nelle fabbriche non si poteva entrare. Quando prima ti ho detto che stavo davanti ai cancelli della Fiat, lo intendevo letteralmente. Il diritto all’assemblea ci avrebbe aperto le porte delle fabbriche, e da lì sarebbero venuti i delegati di reparto e i consigli di fabbrica”.
Il 12 dicembre, a Piazza Fontana, scoppiò una bomba che avrebbe aperto un’altra stagione, quella del terrorismo stragista. Successe mentre la vertenza dei metalmeccanici era in pieno svolgimento. Quale fu la vostra reazione?
“Non ci parve un episodio né improvviso né casuale. Fu un tentativo estremo di sovvertimento che aveva nel mirino anche le lotte sindacali. Ci sembrò subito evidente. Non volevano colpire un governo simile al precedente e a quello che sarebbe venuto poi (all’epoca gli esecutivi si avvicendavano rapidamente). Da mesi centinaia di migliaia di lavoratori erano in piazza. La novità straordinaria era un movimento di massa non più esclusivamente studentesco, ma che entrava in conflitto con le grandi imprese, la Fiat, l’Alfa, la Finsider. Era una fase di lotta di classe al massimo livello di scontro concepibile, con rivendicazioni della dimensione che abbiamo ricordato. Piazza Fontana fu una reazione politica di carattere terroristico, e quindi nuovo, che considerava le lotte sindacali e operaie come un momento forte, simbolico, emblematico della rottura degli equilibri nazionali. Ho sempre pensato che non avrebbe senso valutare Piazza Fontana a prescindere dall’autunno caldo. Ma dopo tre mesi della lotta più dura, e dopo la bomba, doveva porsi il problema della soluzione. Ci rendemmo conto di avere raggiunto un punto in cui la crisi dei rapporti sindacali era trascesa. Era in gioco il sistema degli equilibri repubblicani. E siccome questo avveniva sul terreno della lotta sindacale, alla fine apparve chiaro nell'interesse di tutti che andava conclusa la vertenza. Il che accadde quando il ministro del Lavoro Donat Cattin convocò le parti. Il terrorismo, che nasceva anche come reazione alle lotte sindacali, poi avrebbe trovato un argine in quelle stesse lotte".
Tra gli altri risultati di quella stagione ci fu, naturalmente, l’unità sindacale...
“L'autunno caldo fu l'affermazione definitiva di un modello di contrattazione. Il contratto nazionale rivendicato da Fim, Fiom e Uilm si articolava per la prima volta con il riconoscimento della contrattazione aziendale. Questo fu il punto più duro della vertenza, perché la Federmeccanica non voleva riconoscerlo. L'unità sindacale acquistò consistenza nel corso della lotta. Era la prima volta, effettivamente, che le tre sigle metalmeccaniche elaboravano una piattaforma veramente unitaria. Tieni conto che i dirigenti in campo - Trentin, Benvenuto e Carniti – sarebbero diventati segretari generali di Cgil, Cisl e Uil. Furono insomma circostanze abbastanza particolari. Nel prosieguo dell’autunno caldo ci ritrovammo con centinaia di migliaia di nuovi iscritti alle tre organizzazioni. A quel punto sorse quasi in modo naturale l'idea che fosse tempo di realizzare l'unità sindacale. L'unità Cgil-Cisl-Uil non era a portata di mano, era ancora una possibilità futuribile. Ma l’unità dei metalmeccanici era realizzabile, e così nacque la Flm, la federazione che fu formalizzata nel 1972. I metalmeccanici furono protagonisti di un cambiamento radicale nel sindacalismo italiano ed europeo. Venivano in missione da mezza Europa a trovare questa nuova ‘bestia’ sindacale. Eravamo sulla soglia dell’unificazione del sindacato metalmeccanici, non più Flm come somma ma come federazione unitaria, ma l’operazione si fermò perché Cgil, Cisl e Uil (e in particolare la Cgil) non erano convinte”.
Contratto (1970) di Ugo Gregoretti
All’inizio hai parlato di una stagione che non si chiuse nel dicembre 1969. Negli anni seguenti di cosa ti occupasti?
“Concluso l’accordo del ’69, nella segreteria della Fiom presi la responsabilità del settore siderurgico. Ero relativamente giovane e avevo delle idee in mente che mi sembrava si potessero attuare. Avevo lavorato sul sistema delle qualifiche, che consideravo sbagliato. La siderurgia in quel momento non riportava la classificazione tipica tra operai, impiegati e categorie speciali, ma utilizzava una classificazione importata dagli Stati Uniti d'America, la job evaluation, che divideva l'insieme dei lavoratori in 50 classi, 24 classi per gli operai. Tutto era suddiviso in base a mansioni precise, inalterabili. I lavoratori erano collocati in una classe che rimaneva più o meno la stessa per tutta la vita. Durante il negoziato contrattuale per il settore siderurgico proponemmo di passare dalle 50 classi a 6 livelli. La vertenza durò molti mesi e si concluse esattamente alla vigilia di Natale del 1970 con un accordo che sostituì le classi con 8 livelli. L’Inquadramento unico conquistato all’Italsider entrò nella piattaforma per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici nel 1972, e fu negli anni successivi generalizzato in tutte le categorie del lavoro dipendente. Fu uno dei successi seguiti al nuovo clima sindacale aperto dal ‘69. Era un’epoca nella quale introducevamo moltissime novità. Un altro risultato, ovviamente, fu il contratto nazionale dei metalmeccanici siglato nel 1973, che inserì le 150 ore di formazione per gli operai pagate dall’impresa. Non formazione professionale ma autoformazione, studio indipendente dalle specificità professionali dell’operaio nell'impresa. Un’altra svolta straordinaria. Le università e le scuole italiane si riempirono di lavoratori. Fu una stagione entusiasmante”.
E cosa ne sopravvive oggi?
“Direi due cose. La storia del nuovo sindacato dei delegati inizia nel ‘69. La Flm era il sindacato dei consigli di fabbrica, non delle componenti. Quella linea, quell’organizzazione dei lavoratori, anche se con interpretazioni e modulazioni diverse, è proseguita fino a oggi. Lo stesso si può dire dell’unità sindacale, un’idea che, nonostante tutti i problemi e le rotture, mi pare ancora viva”.
(Archivio storico nazionale Cgil)