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Contrattare nelle piattaforme. È questo il titolo del primo panel che si è svolto durante la Conferenza d’organizzazione della Cgil in corso a Milano al Teatro Dal Verme. Nel confronto, moderato da Luca Patrignani, hanno raccontato le loro esperienze tre lavoratori che ogni giorno si misurano col lavoro al tempo delle grandi piattaforme digitali. A partire da Amazon.
Beatrice Moia, delegata Filcams del colosso statunitense, mette in rilievo come “dietro a un’innovazione apparente si nasconde un lavoro duro, fatto di pesanti carichi manuali da movimentare e lunghe distanze da percorrere ogni giorno. Anche giovani di poco più di 20 anni, dopo tre o quattro anni di lavoro, accusano patologie muscolo-scheletriche”. Poi c’è l’algoritmo: “È stressante lavorare essendo controllati a ogni istante. In tanti soffrono di attacchi di panico e ansia”, racconta Moia. Che aggiunge: “Qualcosa però si muove, siamo molto orgogliosi del primo sciopero che abbiamo organizzato durante l’ultimo black friday. Siamo finalmente riusciti a parlare di questi aspetti, che prima non conosceva nessuno”. Tra i motivi della vertenza, i turni non equamente distribuiti e la mancata rotazione delle mansioni. E poi c’è la gestione del personale: “Amazon incentiva economicamente dopo tre o quattro anni i lavoratori ad andarsene. Dopo un po’, con mansioni così stressanti, non sei più produttivo. E così ti ritrovi ‘fuori’, magari con qualche ernia e poche possibilità di trovare un’altra occupazione”.
L’impatto delle piattaforme digitali ha trasformato anche il lavoro nei call center. “All’inizio - spiega Alessio Barsotti, di Nidil e precario di Contact Center - ci sembrava positivo. Il lavoro alla cuffia è molto più stressante della chat. Tuttavia, ben presto ci siamo resi conto che l’azienda stava iniziando a creare un database di risposte, in modo da automatizzare il più possibile il lavoro, il che naturalmente in futuro si tradurrà in meno lavoro e meno persone impegnate.” Le aziende, ha aggiunto Barsotti, “hanno già iniziato a vendere prodotti in cui il 50 per cento degli interventi di ‘aiuto’ li fanno le macchine, poi c’è un’altra quota di interazioni ibride lavoratori-macchine e quindi solo una percentuale residua di lavoro umano. Così si crea la disoccupazione”. In queste condizioni difficile protestare e fare scioperi. “La nostra sfida – conclude il lavoratore – è utilizzare i fondi disponibili per fare formazione, per ‘trasportarli’ verso nuovi modelli di lavoro in cui l’automazione gioca un ruolo sempre più importante”.
L’ultimo lavoratore a portare la propria testimonianza è il rappresentante della categoria che forse, nell’economia dell’algoritmo e dei lavoretti, è quella, se è possibile fare una graduatoria, che sta messa peggio. Quella dei rider, coloro che in bicicletta ci consegnano cibo e merci a domicilio. Niccolò Verde ha 24 anni e se da un lato riconosce che il lavoro che svolge gli offre una certa disponibilità nella gestione del proprio tempo, dall’altro sottolinea che “si tratta di un’attività molto pericolosa, in mezzo al traffico, nello smog, magari sotto alla pioggia. E il tutto senza uno straccio di assicurazione che copra i rischi che si corrono ogni giorno”. Per questo, il primo obiettivo dei rider che tra mille problemi (“abbiamo difficoltà a incontrarci, parlare e confrontarci tra noi”) provano a raggiungere è quello di avere un contratto di lavoro. “Così - conclude Verde - ci siamo avvicinati al sindacato. Per noi sarebbe un gran risultato”.