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Il testo che segue è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Attualità del n. 3-2017 della Rivista delle Politiche Sociali. Gli abbonati possono leggerlo qui in versione integrale. Questo è invece il link alla rubrica che Rassegna dedica alla stessa Rivista
La ricetta di politica economica adottata dagli ultimi governi si è orientata negli anni della crisi a una riduzione del peso del settore pubblico sul Pil per dare una spinta alla crescita. Questo orientamento della politica di bilancio, che mira a ridurre le imposte e la spesa, si allinea con le sole proposte organiche di riforma del settore pubblico finora avanzate da think-tank indipendenti, che hanno come obiettivo quello di stimolare la riflessione su come riformare le politiche fiscali e sociali del Paese.
Il punto di partenza per questa riflessione è vedere quali opzioni abbiamo a disposizione: si identificano sostanzialmente tre modelli alternativi (socialdemocratico, liberale e corporativo) per l’organizzazione del welfare state nei paesi capitalistici, che si differenziano chiaramente rispetto alla spesa che implicitamente si genera e alle coperture garantite da ciascuno. Il modello socialdemocratico è quello che offre maggiori protezioni e implica una maggiore spesa e un maggior coinvolgimento dello Stato. Al contrario, il modello liberale è quello che offre le minori protezioni e che spinge verso il mercato per soddisfare la domanda di protezione sociale. In una sorta di posizione intermedia, per volume di spesa e di tassazione, si colloca infine il modello corporativo, che guarda ai lavoratori divisi in corporazioni come soggetti da tutelare.
L’Italia ha chiaramente adottato un modello corporativo; e la frammentazione dei programmi di spesa è uno dei grandi problemi nel processo di modernizzazione del welfare italiano, perché l’abbandono della categorialità comporta la riduzione di privilegi per alcuni a vantaggio almeno del mantenimento delle tutele per altri.
Ci sono almeno due ragioni oggettive per spiegare il malcontento nei confronti dell’attuale modello corporativo dello Stato sociale italiano: la prima ragione è la demografia, la seconda il mutamento del ruolo delle donne e della famiglia come soggetto auto-produttore di alcuni servizi di welfare. Entrambe le ragioni chiedono un mutamento della domanda di coperture, pensate per una struttura sociale che oggi non c’è più.
A partire da queste ragioni oggettive, la domanda di riforme viene alimentata dalla diffusione anche in Europa della retorica della “responsabilità individuale”, l’idea cioè che lo Stato debba intervenire ad aiutare gli individui solo quando le circostanze che li hanno colpiti sono davvero al di fuori del loro controllo. Una retorica sostenuta anche dall’esperienza di continui episodi di assistenzialismo che vengono raccontati dalla stampa e dall’incapacità (quando non dalla mancanza di volontà) di porvi rimedio. La retorica dell’impegno, per un economista, identifica immediatamente un problema di “comportamento opportunistico”, il problema che si è cercato di affrontare con le recenti riforme in giro per l’Europa dell’intervento assicurativo pubblico sul mercato del lavoro rivedendo in senso restrittivo le coperture.
Ma nell’ambito dello Stato sociale questo problema si mischia con la “selezione avversa”, davvero un problema di (s)fortuna e non di impegno, che mette in luce la natura redistributiva dell’intervento pubblico, dai più fortunati ai meno fortunati. Lo Stato sociale moderno deve fare redistribuzione e non limitarsi ad assicurare, visto anche l’aumento delle diseguaglianze che abbiamo osservato con la crisi economica; ma deve farlo in modo efficiente.
C’è infine un ulteriore elemento che complica la capacità di riformare in Italia: la situazione della finanza pubblica. Per tutti gli anni ottanta si sono gestiti i conflitti sociali con il debito, andando avanti a registrare enormi disavanzi di più di 10 punti di Pil per un intero decennio. Questa strategia esplode nel 1992, quando il paese sottoscrive il Trattato di Maastricht e le regole europee mettono a nudo tutti i limiti di un modello solo italiano e acuiscono la conflittualità tra due aree del Paese che hanno attese diverse in termini di riforma e fanno diagnosi diverse dei problemi: la retorica dei territori settentrionali è tutta legata alla spesa inefficiente del Sud finanziata con i soldi del Nord; la retorica di quelli meridionali è invece legata all’evasione fiscale e alle ricchezze nascoste.
Queste due visioni sono inconciliabili tra di loro: guardano allo stesso problema, ma da versanti opposti e identificano un’altra grande frattura che percorre il Paese accanto a quella generazionale indotta dai mutamenti demografici. Le riforme dovranno passare da una grande operazione di chiarezza: dobbiamo capire se vogliamo continuare a essere un Paese con tutele relativamente estese (e alta pressione fiscale) o vogliamo transitare verso un modello liberale più simile a quello degli Stati Uniti. La risposta a questa domanda condizionerà necessariamente il percorso di riforma: il modello statunitense richiede scelte draconiane, perché dovrebbe comportare una sensibile riduzione della tassazione in prospettiva e un taglio della spesa.
Continuare con un modello europeo richiede invece scelte meno drastiche: le riforme devono concentrarsi sul disegno di un sistema di prelievo e di spesa più efficiente, ma poi le riforme vanno fatte anche se riducono le rendite per alcuni. Senza atteggiamenti schizofrenici, con un grande patto nazionale tra generazioni, territori e poteri dello Stato.
Gilberto Turati è professore associato di Scienza delle finanze presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore (sede di Roma)