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Settembre, per i più la fine delle vacanze. Ma la parola “ripresa”, di solito associata al ritorno dalle ferie, nulla ha a che fare, oggi, con lo stato di salute del nostro sistema produttivo. Sono più di 150 i tavoli aperti al ministero dello Sviluppo economico, senza contare gli innumerevoli casi in cui sindacato e lavoratori si ritrovano a fronteggiare situazioni di vera e propria emergenza. Un pessimo autunno, insomma, quello che si profila per tanta parte dell’industria italiana, alle prese con una crisi di cui, in assenza di politiche adeguate, ancora non si vede la fine. Rassegna, come sempre, continuerà a seguire con attenzione il tema. La Lucchini di Piombino e l’Alcoa di Portovesme sono le due storie su cui intanto facciamo il punto.
Piombino. Acciaierie, tempo scaduto
Dallo stabilimento proviene un silenzio assordante, ormai sono in pochi a lavorarci: ogni giorno entrano in fabbrica solo 800 operai, mentre gli altri 1400 restano a casa. Ad aprile si è spento l’altoforno, mentre da agosto la cokeria è in riscaldo, cioè inattiva ma riscaldata con alti costi dal metano, e così sarà sino alla fine di settembre, termine ultimo per presentare un’offerta per l’acquisto. Se nessuna azienda dovesse presentarsi, anche la cokeria si spegnerà definitivamente. Come se non bastasse, l’offerta vincolante presentata dall’indiana Jindal Steel Works non è stata ritenuta adeguata dalla Commissione di sorveglianza della Lucchini: pare addirittura ci fosse sul piatto solo un’offerta simbolica (circa 10 milioni di euro) per l’acquisto dell’area a freddo e un drastico ridimensionamento del personale. Il commissario straordinario Piero Nardi è così volato in India per ritrattare i termini e sembra adesso che una nuova offerta sarà presentata entro il 15 settembre. Quale sarà il suo valore ancora non è dato saperlo, ma da alcune fonti pare sia inferiore a quei 70 milioni che Nardi già si attendeva alla chiusura del bando.
Oltre ai laminatoi, agli impianti marittimi e all’impegno a riassumere 700-800 operai, la Jsw inserirà nell’offerta la richiesta di alcune aree retroportuali utili allo sviluppo di un progetto legato alla logistica. Al momento manca però l’impegno più importante e atteso, ossia quello di un piano industriale che preveda la realizzazione di un forno elettrico e di un Corex, per tornare nuovamente a produrre acciaio a Piombino e garantire un futuro agli operai e all’intero territorio. Inoltre, la presentazione di una nuova offerta a metà settembre e la riduzione del suo ammontare fa slittare tutti i termini, con il rischio di non riuscire a coprire i contratti di solidarietà, finora garantiti sino ad aprile. Uno scenario drammatico per i 4mila addetti, tra diretti e indiretti, e che per alcuni è già diventato realtà. Sono due, infatti, le aziende dell'indotto, la 3Emme (Manutenzione mezzi meccanici) e la Bertocci, che da un paio di mesi non riescono a pagare gli stipendi ai loro operai, a causa di errori burocratici, ritardi e mancanza di risorse. Situazione che ha già portato gli operai allo stop e a vari sit-in di protesta.
“Il tempo è scaduto! – afferma deciso Luciano Gabrielli, segretario provinciale della Fiom –. Noi, Fim e Uilm chiediamo al governo di agire al più presto. Siamo stanchi di annunci e promesse. In primavera è stato firmato un Accordo di programma ben preciso, in parte anche sull’onda mediatica dell’appello del Papa e dello spegnimento dell’altoforno. Ma l’Accordo è una scatola vuota da riempire e il governo, che l’ha firmato, deve ora intervenire e mettere in campo un piano industriale. Non basta stanziare dei soldi, bisogna agire concretamente, facendo partire le bonifiche e facendo pressione su Jindal per capire se ha intenzione di investire sull’area fusoria o meno. Perché è questo il punto, tornare a produrre acciaio a Piombino”.
Per due giorni un operaio, Paolo Francini, ha portato avanti lo sciopero della fame accampato all’ingresso della città: non è mai rimasto solo, sull’aiuola spartitraffico si è creato una specie di accampamento e un altro operaio ha iniziato lo sciopero della fame. Perché ormai è l’intera città a trovarsi in gravi difficoltà: nel primo semestre del 2014 sono aumentate del 30 per cento le richieste alla Caritas locale di famiglie che non riescono a pagare bollette e affitti e che spesso chiedono anche cibo e vestiario. Una crisi silenziosa di lavoratori che in breve tempo si sono ritrovati con stipendi ridotti e a volte precari, catapultati in condizioni al limite della povertà. Il coordinatore delle Rsu Mirko Lami ha reso noto che sono stati ben novantasei i negozi chiusi o in vendita dall’inizio della crisi: segno tangibile di quanto il territorio sia legato alla fabbrica.
“Già da ottobre, dopo la presentazione della nuova offerta, la situazione potrebbe scoppiare, sfociando anche in azioni eclatanti da parte di singoli – dice preoccupato Gabrielli –. Il rischio che i contratti di solidarietà saltino prima del tempo è sempre più reale, come è reale il rischio che venga a mancare la solidarietà tra i lavoratori, in una corsa egoistica nel rientrare tra gli 800 assunti da Jindal. Sappiamo di non essere soli e insieme agli altri sindacati lanciamo un appello per unire le varie vertenze della siderurgia con uno sciopero e una manifestazione nazionale da programmare al più presto”.
Alcoa. Quattro mesi per salvarsi
È nei prossimi quattro mesi – la Cigs scade alla fine dell’anno – che si gioca il futuro dello stabilimento di alluminio primario nel Sulcis Iglesiente. Alcoa chiude ma la prospettiva che sia un altro soggetto industriale a rivitalizzare le produzioni è percorribile. Al vaglio di Regione e ministero c’è l’ipotesi Glencore, alla quale anche il sindacato guarda con favore, perché fondata sulle sinergie tra impianti metallurgici. La multinazionale svizzera è già proprietaria dello stabilimento sulcitano di piombo e zinco e, da qualche mese, appare interessata a rilevare lo smelter.
“Lo stop di Alcoa è una decisione presa in ossequio a una strategia mondiale che se ne infischia degli interessi sardi e nazionali – spiega il segretario generale della Cgil Sardegna Michele Carrus –, ma la produzione di alluminio è indispensabile all’industria manifatturiera italiana. Spetta al governo costruire una politica industriale che difenda e rilanci l’unico stabilimento rimasto”. Perciò la vertenza, che coinvolge i 501 lavoratori diretti e i 386 degli appalti, va molto oltre la difesa dei posti di lavoro nel sud della Sardegna, perché è immersa in un più ampio contesto che chiama in causa la domanda di alluminio primario da parte di 25mila aziende e 70mila addetti (fonte Unioncamere): il 15 per cento del fabbisogno italiano in tutti questi anni è arrivato proprio dal Sulcis, perciò è lecito chiedersi a quali mercati e a quali prezzi quella domanda dovrà piegarsi se il governo italiano lascerà fallire le trattative per il rilancio dell’unico impianto rimasto. E a dispetto di quanto scritto il 25 agosto sul sito Alcoa per spiegare le ragioni della chiusura – costi elevati e poca competitività – ci sono le performance di rendimento e costo, che posizionavano lo smelter di Portovesme sopra la media degli altri impianti con capacità simile.
“Certo, tutto si può migliorare – avverte Carrus –, ma la multinazionale americana ha deciso di smantellare quando era ancora in piedi il regime di super interrompibilità sancito da una legge dedicata a Sardegna e Sicilia che garantiva l’energia a prezzi ridotti. È una scelta, quella di chiudere, che risponde a un disegno globale ma nega le evidenti potenzialità di sviluppo del nostro impianto”. Le billette sulcitane erano infatti di altissima qualità, e per il sindacato, vista anche la richiesta del mercato (elevata nonostante la crisi generale), ci sono prospettive di rilancio e crescita, a patto però che si facciano scelte adeguate: “Abbiamo aspettative positive sulla trattativa in corso” dice il segretario Cgil aggiungendo che “è indispensabile assicurare la realizzazione delle infrastrutture nel territorio, prorogare gli accordi sulla super interrompibilità per ridurre il costo dell’energia, promuovere contratti bilaterali e, contestualmente, vagliare anche l’ipotesi di una joint venture tra azienda e produttore di energia”.
Sono queste le rivendicazioni dei lavoratori in presidio da oltre cento giorni davanti ai cancelli di Portovesme. A sostenerle è anche la Regione, che con la giunta di centrosinistra in questi mesi ha restituito concretezza e autorevolezza alle trattative: “Lavoriamo per fornire certezze e stabilità agli investitori” ha detto il presidente Pigliaru illuminando il futuro con una prospettiva che solo a Natale scorso, quando ancora si discuteva del bluff del gruppo finanziario Klesch, sembrava inimmaginabile. Gli spazi però sono stretti, anche perché la cassa integrazione straordinaria, ricordavamo all’inizio, scade il 31 dicembre. Nel frattempo, dopo lo spegnimento delle celle elettrolitiche che ha sancito la fine della produzione già dal 2012, circa trenta operai sono al lavoro per mantenere gli impianti in efficienza. Ora l’attenzione del sindacato è rivolta al “memorandum di intenti” la cui firma era prevista per agosto ma è slittata, presumibilmente per i diversi e complessi aspetti da definire tra i soggetti interessati, in particolare Glencore e Enel.