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Una catastrofe occupazionale si sta abbattendo sulla Sistemi Informativi, società del gruppo Ibm con 958 addetti tra Roma, Milano, Torino e Perugia. Lo scorso 16 giugno l'azienda ha aperto una procedura di licenziamento collettivo per 156 dipendenti dichiarati “esuberi strutturali”. Una scelta che sarebbe motivata dal perdurare della crisi del settore Itc, dalle difficoltà nel reperire commesse nella pubblica amministrazione e “dall'ammessa incapacità – riferisce la Filcams Cgil – di aprire nuove prospettive di mercato”.
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La Sistemi Informativi nasce nel 1979 a Roma come azienda autonoma per poi crescere costantemente nel tempo. A metà degli anni '90 viene acquisita proprio da Ibm con la conseguente riduzione dei margini di autonomia e dinamismo manageriale. Nel 2013 il bilancio era in rosso di circa 3 milioni su un fatturato totale di 100 milioni.
I problemi dell'azienda sono strettamente collegati al declino dell'impegno di Ibm nel mercato italiano. Fino a vent'anni fa, la multinazionale produceva nel nostro paese hardware e software con oltre 13mila dipendenti in vari centri d'eccellenza. Da allora, però, la smobilitazione è stata costante: licenziamenti collettivi ed esodi incentivati hanno portato l'attuale numero di occupati nelle aziende del gruppo a circa 3mila.
“Per la Sistemi Informativi – ricorda la Filcams – si è proceduto alla prima operazione di macelleria sociale sfruttando l'ammortizzatore sociale della cassa integrazione per scaricare le inefficienze sui lavoratori, 292 dei quali sono stati tenuti a casa per un anno. Nel periodo della cassa integrazione, il sindacato si è battuto per avere un piano industriale che rilanciasse l'azienda e garantisse l'occupazione. Questo piano, definito dalla stessa azienda The Last Chance, alla fine è stato prodotto, ma è rimasto un libro dei sogni”.
"L'epilogo dei 156 licenziamenti era il destino che Ibm aveva scritto per Sistemi Informativi, ma non è detto che sia finita qui”, aggiunge la Filcams: “I lavoratori chiedono alla casa madre e al management aziendale di ritirare la procedura di licenziamento collettivo. Esistono soluzioni non traumatiche in termini occupazionali, come i contratti di solidarietà che potrebbero essere utilizzati per attuare quel cambio di rotta annunciato nel piano industriale, ma che Ibm non ha voluto realizzare. L'alternativa – conclude il sindacato – è gettare 156 famiglie nella disperazione di un mercato del lavoro che poco ha da offrire, e nulla fa presupporre che possa servire a salvare le restanti 802”.