L’ultima esternazione di Tremonti, inventore della “finanza creativa” e artefice dell’ultimo condono, quello, per intenderci, che, grazie al c.d. scudo fiscale, consentirà (anche) il rientro di capitali “sporchi” - in forma anonima e con una ridicola imposizione fiscale di appena il cinque per cento - è quella del “posto fisso”.
Naturalmente, le affermazioni dello stesso ministro che, appena qualche mese fa, invitava i disoccupati ad “andare a quel paese”, cercando di ridimensionare e ridicolizzare le ultime rilevazioni Istat - al fine disconoscere ed esorcizzare lo stato comatoso dell’occupazione - hanno destato sorpresa e suscitato l’interesse di molti.
Personalmente, non sono tra questi!
Non lo sono perché, all’abituale scetticismo circa le improvvise “conversioni” alle esigenze del benessere individuale e collettivo dei lavoratori - soprattutto se operate da noti interpreti e rappresentanti dell’ultra-liberismo e del c.d. libero mercato - associo la convinzione che, ancora una volta, siamo di fronte ad un “effetto annuncio”.
Siamo, a mio parere, all’ennesima riproposizione di un tema “caldo”, qual è la garanzia del posto di lavoro, strumentalmente utilizzato per suscitare un coinvolgimento mediatico e, contemporaneamente, riproporre l’antico gioco “delle tre carte”; attraverso le quali, si distrae l’attenzione dell’interlocutore di turno, si produce interesse per un “particolare” e, alla fine, vince sempre il banco!
In effetti, il sospetto che si tratti dell’ennesima rappresentazione di un gioco delle parti - già brillantemente interpretato dagli stessi attori, sebbene a ruoli invertiti - è abbastanza fondato; basti rilevare che, se Brunetta e Sacconi si sono immediatamente “dissociati” dalle parole di Tremonti, il capo indiscusso della coalizione di governo, ha, addirittura, dichiarato di condividere l’ipotesi del ministro del Tesoro. A rischio di smentire, in modo clamoroso, il frutto delle politiche neo-liberiste che, nel corso dei governi Berlusconi, hanno ridotto la “flessibilità” a sinonimo di “precarietà”!
In questa sede, però, non è mia intenzione dedicare altra attenzione alla sortita di Tremonti; m’interessa approfondire un tema recuperato, nell’occasione, da Tito Boeri.
Si tratta dell’ennesima riproposizione, in alternativa al “posto fisso”, del c.d. “Contratto unico”.
Naturalmente, prima di esporre i motivi di dissenso, è opportuno evidenziare, in estrema sintesi, le principali caratteristiche della proposta Boeri.
Reputo (anche) utile rilevare che, curiosamente, una soluzione sostanzialmente identica, era stata avanzata, oltre che da Pietro Ichino - autorevole consulente di Ignazio Marino - anche da Tiziano Treu (sostenitore di Franceschini) e da Enrico Letta (sponsor di Bersani). E’ evidente, quindi, che il “contratto unico” riscuote il consenso dell’intero Pd!
In pratica, la proposta prevede l’introduzione di una nuova tipologia contrattuale.
Un (nuovo) contratto di lavoro a tempo indeterminato, che sostituirebbe l’attuale, caratterizzato da tre distinte “fasi”.
La prima, costituita da un “periodo di prova”, della durata (per tutti) di sei mesi; la seconda, rappresentata da un periodo di c.d. “inserimento”, della durata di trenta mesi e, infine, la “stabilizzazione”, alla scadenza del triennio.
La prima considerazione da fare è che, in effetti, con la formula del contratto unico, il rapporto di lavoro “a tempo indeterminato” - così come oggi concepito - si realizzerebbe (probabilmente) soltanto al compimento dei trentasei mesi.
Il condizionale è d’obbligo, perché nulla garantisce il lavoratore circa la possibilità che, al compimento della fase di inserimento, il datore di lavoro decida di “stabilizzare” il rapporto!
Procedendo per punti, assunto che - come a tutti noto - durante il periodo di prova il datore di lavoro può rescindere il contratto in qualsiasi momento, in modo unilaterale e senza alcun obbligo nei confronti del lavoratore, è opportuno rilevare che un periodo uguale per tutti e così lungo, appare assolutamente ingiustificato.
Dal punto di vista dell’uniformità, perché sono inspiegabili i motivi per i quali la durata della “prova” di un usciere, o di un commesso, debba essere uguale a quella prevista per un tecnico informatico, o per un dirigente.
Sulla durata - pari a quella attualmente prevista per i dirigenti - si pone un altro tipo di considerazione.
In effetti, se la motivazione è rappresentata dalla necessità di consentire al datore di lavoro di meglio valutare e approfondire le capacità tecnico-professionali del lavoratore, l’allungamento del periodo di prova - con conseguente “dilatazione” del periodo durante il quale è possibile la rescissione unilaterale del rapporto di lavoro - appare, a mio parere, strumentale.
Infatti, considerata la molteplicità di tipologie contrattuali al momento disponibili, a partire dal contratto a termine “riformato” - che è stato sostanzialmente liberalizzato e non richiede più, come per il passato, una “causale” oggettiva - anche il datore di lavoro più esigente dispone (già) di ampia discrezionalità e tempi di verifica; consentendo, contemporaneamente, la regolare instaurazione del rapporto di lavoro subito dopo il superamento dei periodi di prova (sufficientemente ampi, a mio avviso) previsti dalle attuali norme contrattuali.
Per quanto riguarda, invece, il periodo di inserimento, è appena il caso di sottolineare che esso corrisponde, in sostanza, a una vera e propria “moratoria” rispetto all’applicazione dell’art. 18 dello Statuto e dell’art. 8 della legge 108/90!
Infatti, l’ipotesi di riforma, così tenacemente sostenuta da Boeri, Ichino e &, prevede che nel corso dei trenta mesi di “inserimento”, il lavoratore ha titolo a opporsi al solo licenziamento di tipo “discriminatorio”; nulla potendo obiettare a un licenziamento senza “giusta causa” o “giustificato motivo soggettivo”!
Rispetto a questo secondo punto, credo sia noto a tutti - in primis ai sostenitori della nuova tipologia contrattuale - che, a un lavoratore licenziato, risulta sempre difficilissimo, se non impossibile, superare l’onere della prova della natura “discriminatoria” (motivi religiosi, sessuali, razziali, ecc) del provvedimento adottato dal proprio datore di lavoro.
Resterebbe la (magra) consolazione, al lavoratore licenziato, di percepire un indennizzo monetario, commisurato alla durata del rapporto di lavoro interrotto.
Alla scadenza delle prime due fasi, per (finalmente) concludere, in modo positivo, l’iter del contratto unico - dopo tre anni di “soggezione” e “speranza” - il lavoratore potrebbe solo sperare nella disponibilità del datore di lavoro ad assumerlo, questa volta effettivamente, a tempo indeterminato.
In definitiva, considerati i principali aspetti della proposta in discussione, appare del tutto condivisibile la posizione di coloro che ritengono il contratto unico assolutamente inadeguato, ma, soprattutto, ingiusto, a risolvere il c.d. “dualismo” esistente tra i lavoratori che “godono” di garanzie e tutele e quanti, invece, ne sono privi o lo sono in modo insufficiente.
Ritengo, infatti, che per superare le disparità, oggi esistenti tra gli “insider” e gli “outsider” - come amano definire i lavoratori, i sostenitori della riforma - debbano essere perseguite altre soluzioni, piuttosto che uniformare “per difetto” i diritti e le tutele.
Un altro motivo di critica, nella valutazione complessiva del contratto unico, è relativo ai ricorrenti riferimenti che, i sostenitori della proposta, fanno a provvedimenti adottati alcuni anni or sono nella vicina Francia.
E’, difatti, frequente il ricorso alle (pseudo) similitudini che accomunerebbero il contratto unico al Contratto di nuova assunzione (Cne) e al Contratto di prima assunzione (Cpe) introdotti, rispettivamente, nel 2005 e nel 2006.
In realtà, la nostra nuova tipologia contrattuale sarebbe, addirittura, peggiorativa rispetto ai due nuovi contratti di lavoro che, appena introdotti in Francia, produssero comunque le proteste di milioni di lavoratori e studenti.
Questo perché, anche se i tre provvedimenti sono simili nel prevedere - dopo il periodo di prova - una successiva fase di “inserimento” (in Italia), o di “consolidamento” (in Francia) e la facoltà dei datori di lavoro di rescindere in qualsiasi momento il rapporto di lavoro, presentano, in effetti, notevoli differenze.
Infatti, il Cpe può essere utilizzato da tutte le imprese del settore privato - escluse le stagionali e quelle con meno di venti dipendenti - per l’assunzione di giovani al di sotto dei ventisei anni. Il Cne, invece, è riservato alle c.d. “piccole imprese” (fino a venti addetti) ed è rivolto a lavoratori di qualsiasi età.
E’ evidente, quindi, che il contratto unico - rivolto a tutti i lavoratori, di ogni età, di qualunque settore produttivo e senza alcun limite dimensionale delle aziende - non presenta nessuna similitudine, né con il Cpe, né con il Cne. Anzi, ne rappresenta una sorta di “effetto cumulo” delle specifiche negatività.
Tra l’altro, non è secondario rilevare che i due contratti introdotti in Francia, a differenza della proposta italiana, hanno una durata massima di ventiquattro mesi!
In definitiva, in aggiunta a tutto quanto (di peggio) c’è da temere dal Berlusconi IV, se questa del contratto unico, tanto nella versione Ichino, quanto in quella Boeri, dovesse continuare a rappresentare l’ipotesi di riforma del mercato del lavoro prospettata dal Pd, ci sarebbero, evidentemente, gravi motivi di preoccupazione per il futuro dei lavoratori italiani!
Per concludere, con un’esortazione di carattere politico rispetto alla sortita di Tremonti sul “posto fisso”: per dimostrare che le sue non sono state “parole dal sen fuggite”, si renda promotore di un ampio confronto (rappresentanze sindacali - forze politiche - giuristi - economisti) che rivitalizzi una riflessione sulle (nefaste) conseguenze delle politiche del lavoro adottate dai governi Berlusconi che, agli obiettivi di Lisbona - che restano un miraggio - hanno sacrificato diritti e tutele.
Il "Contratto unico": l'alternativa (nefasta) al "Posto fisso" di Tremonti
L'ultima esternazione di Tremonti ha sollecitato la riproposizione di una vecchia idea del duo Boeri-Ichino. Preoccupa molto rilevare che il c.d. "contratto unico" riscuote il consenso di tutti e tre gli aspiranti leader del Pd
2 novembre 2009 • 00:00