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Nella competizione che ogni anno ha luogo tra le grandi aree economiche del mondo, il 2017 sarà – secondo i principali istituti internazionali di analisi economica e di statistica – l'anno dell'India. Con un aumento previsto del 7,5% del prodotto interno lordo, largamente derivante dagli effetti dei massicci investimenti in infrastrutture, il governo guidato da Narendra Modi metterà a segno il tasso di crescita più consistente nel contesto dei sistemi economici rilevanti a livello globale, contribuendo all'incremento del 5,2% complessivo nel continente asiatico e al rafforzamento della posizione di locomotiva dell'economia mondiale dell'Asia. Un continente che presenta un unico punto di grave sofferenza, il Giappone, che era l'anno scorso e rimarrà anche quest'anno il paese con la crescita più bassa e lenta, uno striminzito +0,4%. La politica economica del premier giapponese Shinzo Abe, quella “Abenomics” tutta concentrata su riforme d'impianto liberista nelle scelte monetarie e di bilancio, non sembra in grado di imprimere a Tokyo il cambio di passo necessario ad agganciare il trend di crescita che nel resto del continente asiatico prosegue impetuoso. Una malattia, quella del paese del Sol Levante, che pare aver contagiato tutti i paesi che abbiamo imparato a considerare come i soli e incontrastati leader e che, invece, si confrontano con una ridefinizione degli assetti globali destinata a proseguire nei prossimi anni e a cambiare gli equilibri e i rapporti tra paesi e aree geografiche.
Brics e Mint a velocità alternata
Tutti i paesi dalle economie emergenti e di nuovo protagonismo sono avviati a segnare tassi di crescita nettamente superiori a quelli di Usa, Canada, Ue pre e post Brexit, oscillanti tra l'1 e il 2 per cento di previsione di aumento del Pil per il 2017. Alle stesso tempo, continuano a divergere i percorsi interni al gruppo conosciuto con la sigla Brics. La Cina mantiene la sua marcia con una previsione di crescita di +6%, dell'India abbiamo detto, mentre Brasile (+1%), Russia (+0.7%) e Sudafrica (+1,4%) restano nel solco delle difficoltà degli ultimi tempi. Il Brasile, in particolare, è alle prese con il cortocircuito democratico prodotto dal procedimento di rimozione della presidente Dilma Rousseff, che mantiene un effetto negativo sull'economia del paese insieme all'incertezza sulle prospettive politiche e al peso di scandali e corruzione.
L'Indonesia – il più grande paese islamico del mondo, con i suoi 260 milioni di abitanti – va avanti con una previsione di crescita di +5,3%
Fenomeni che riguardano, in proporzioni e gradi diversi, anche il Sudafrica dove l'African national congress sconta un calo di consenso dovuto alle misure economiche impopolari, calo avvertito già nelle elezioni amministrative locali. Il permanere delle sanzioni e le difficoltà economiche interne non scalfiscono, invece, la popolarità di Vladimir Putin, nonostante la Russia sia al secondo anno consecutivo di contrazione nella crescita. Anche tra i paesi dell'acronimo Mint (Messico, Indonesia, Nigeria, Turchia), per i quali le previsioni degli esperti parlavano di un possibile exploit paragonabile ai fasti del gruppo Brics di qualche anno fa, le strade hanno cominciato a prendere direzioni diverse. Se l'Indonesia – il più grande paese islamico del mondo, con i suoi 260 milioni di abitanti – va avanti nel suo sviluppo economico con una previsione di crescita di +5,3%, Messico e Nigeria devono registrare una frenata nelle previsioni, che restano comunque superiori al 2%. Una frenata dovuta alle turbolenze persistenti e alla diminuzione delle entrate nel mercato petrolifero, con in più le tensioni razziali e da fondamentalismo religioso per la Nigeria e i problemi della sicurezza, della pacifica convivenza, dei cartelli criminali per il Messico. Discorso a parte merita la Turchia. Se, da un lato, il paese vede confermato il trend di crescita economica con un +3,3% di previsione, dall'altro deve affrontare una situazione politica di grande tensione dopo il presunto tentativo di colpo di stato e le massicce purghe del presidente Recep Tayyip Erdogan, che – oltre alle conseguenze politiche contro l'opposizione e alla torsione autoritaria rispetto ai diritti sociali e civili – hanno creato difficoltà nella macchina della pubblica amministrazione e rischiano di ripercuotersi negativamente sull'economia.
Europa maglia nera. Italia e Finlandia ultime in classifica
Nel quadro generale, l'Europa è l'area economica con la previsione più bassa di crescita per il 2017, un poco rassicurante +1,1%. Il dato conferma l'affanno dell'Ue nella competizione globale e la inefficacia delle politiche economiche attuate dalla Commissione europea e dai governi dei diversi stati membri. È evidente che se queste politiche non cambiano, se non si abbandona la strada dell'austerità, se non si imbocca la direzione di un piano straordinario di investimenti per la crescita e l'occupazione, se non si procede con una strategia efficace di sostegno e difesa dell'euro, se non parte un progetto di condivisione del debito e di lancio di obbligazioni o bond europei, l'Unione europea non riuscirà a mantenere a lungo il ruolo di area economica che più contribuisce alla creazione di ricchezza al mondo, primato che ancora l'Ue detiene.
Se non si abbandona la strada dell'austerità, l'Unione non riuscirà a mantenere a lungo il ruolo di area economica che più contribuisce alla creazione di ricchezza al mondo
In questo contesto, spicca il caso italiano. Il nostro paese, nonostante gli interventi di riforma del mercato del lavoro e la mole enorme di incentivi destinata alle imprese per l'attivazione dei rapporti di lavoro definiti nel Jobs Act, ha una previsione di crescita per il 2017 di +0,9%, il dato più basso, condiviso con quella Finlandia che sconta gli effetti delle politiche economiche messe in campo dal governo composto dalle forze di destra e dagli euroscettici. Come si può intuire, le scelte adottate nel corso degli ultimi anni da Roma non hanno prodotto risultati, se è vero che la crescita rimane inferiore a quella della media Ue e dei paesi più forti, Germania in primis, e che la disoccupazione tende a crescere così come le disuguaglianze e le distorsioni nella distribuzione del reddito.
È interessante notare come anche in altri paesi del vecchio continente in cui il sentimento antieuropeo tende a crescere – e dunque le scelte politiche ed economiche dei governi lo assecondano – le previsioni di crescita siano modeste. Per l'Olanda e la Francia, chiamata a breve al voto, si prevede un modesto incremento dell'1%, come per l'Austria. Di mezzo punto percentuale superiore è la previsione di incremento per la Danimarca, dove le forze politiche euroscettiche soffiano sul fuoco dei presunti rischi del fenomeno migratorio per la coesione sociale e il sistema di welfare. Gli stessi argomenti che dominano il discorso politico nei paesi dell'Europa dell'est, nei quali però – paradossalmente proprio in virtù degli sforzi finanziari per favorire l'allargamento e consentire l'integrazione, da parte di quella Europa lì tanto criticata – il trend di crescita prosegue con dati in qualche caso doppi (Repubblica Ceca, Slovenia, Estonia, Ungheria) e in altri casi tripli (Bulgaria, Polonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Lettonia) rispetto ai paesi dell'Europa occidentale.
Grecia e Portogallo svoltano a sinistra
Andranno considerate con attenzione, anche rispetto al dibattito che si è aperto in Europa sulla necessità di un profondo rinnovamento politico e culturale della sinistra, le sorti degli esperimenti in atto in Grecia e in Portogallo. In entrambi i paesi il ruolo di governo è svolto da forze politiche di chiara connotazione a sinistra (Syriza in Grecia, i partiti socialista e comunista più il Blocco di sinistra in Portogallo). Sia in Grecia sia in Portogallo i governi in carica stanno cercando di contemperare i vincoli contratti con l'Europa e con le istituzioni internazionali (cioè con la vecchia troika) e le esigenze di modificare le politiche economiche e sociali precedenti, che hanno provocato conseguenze in alcuni casi drammatiche per i livelli di vita e di lavoro dei cittadini. Per i due paesi le previsioni di crescita per il 2017 sono migliori della media europea, Grecia +1,5% e Portogallo +1,3%. C'è da augurarsi un successo degli sforzi che il governo greco e quello portoghese stanno mettendo in campo. La rottura dello schema europeo in voga negli ultimi decenni (austerità, occhiuta disciplina di bilancio, contrazione della spesa pubblica, privatizzazioni e liberalizzazioni, attacco ai diritti sociali e del lavoro, ritiro della dimensione pubblica dalla sfera dell'intervento in economia) può aprire la strada a una fase nuova della vicenda europea, assolutamente necessaria per evitare il deperimento e il tramonto dello stesso sogno europeo.
Gli sforzi che il governo greco e quello portoghese stanno mettendo in campo possono fare da apripista a nuove politiche economiche
Un sogno dal quale si è tirato fuori il Regno Unito, con effetti che si vedranno meglio nel corso del tempo ma che di sicuro non stanno facendo bene all'economia, ai mercati, al sistema produttivo britannico. La sterlina resta in grande sofferenza e continua nel graduale deprezzamento rispetto alle principali valute e anche le previsioni di crescita per il 2017, con un +0,6%, collocano la Gran Bretagna all'ultimo posto in Europa. A ciò, vanno aggiunte le incertezze derivanti dai tempi di uscita dall'Ue, dai contenuti dell'eventuale accordo per l'uscita, dal livello di accesso al mercato unico che verrà definito, dalle possibilità legate alla libera circolazione delle persone. Insomma, non è di certo maturo il tempo per giudizi definitivi ma si può senza dubbio dire che, almeno al momento, i timori di chi si è opposto alla Brexit trovano sempre più ragioni e fondamento.
Non è questa la sede per una analisi approfondita, ma già dai primi passi della nuova presidenza si comprende in tutta evidenza come si stiano materializzando i rischi di una nuova stagione di protezionismo economico, di isolazionismo politico, di ritorno a una dimensione nazionale e domestica. Rischi che, considerato il ruolo degli Stati Uniti d'America nello scenario mondiale, avranno un impatto sull'intero ordine mondiale, sul commercio internazionale e sul governo della globalizzazione, sul futuro di accordi globali come il Ttip, il Tpp, il Tisa, sulle possibilità concrete che i conflitti di tipo economico e commerciale possano sfociare in conflitti di natura generale. Siamo di fronte a uno scenario mondiale nella cui geografia economica, come si intuisce, stanno verificandosi fenomeni di scomposizione e di cambiamento degli antichi assetti.
Crescono i piccoli, ma il prezzo per i lavoratori è alto
Basta guardare l'elenco dei primi dieci paesi che, secondo le previsioni, avranno i più consistenti incrementi della ricchezza prodotta e della crescita interna. Yemen +9%, Myanmar +8,6%, Costa d'Avorio +8,3%, Mongolia +7,8%, Laos +7,6%, Ghana e India +7,5%, Cambogia +7,2%, Bhutan e Gibuti +6,8%. Certo, con l'eccezione dell'India si tratta di piccoli sistemi economici e di paesi che non svolgono un ruolo di primo piano nel contesto economico internazionale, dalla struttura produttiva e manifatturiera non paragonabile a quella dei paesi più sviluppati e dalla ricchezza prodotta che, seppur in crescita, rappresenta una quota marginale su scala mondiale. E, tuttavia, questa graduatoria lascia intuire uno spostamento, lento certamente, ma graduale e dal tratto che tende alla strutturalità, dell'asse attorno al quale si è sviluppata negli ultimi anni l'economia del pianeta. Un processo che vede un progressivo ridimensionamento del peso dei big del passato e l'emergere di nuovi protagonisti. Si può dire che è uno dei risultati accessori della globalizzazione e del processo di integrazione delle economie e dei mercati. Così come si deve dire, da chi come noi è parte della grande comunità del movimento sindacale internazionale, che in questi nuovi soggetti dell'economia mondiale le condizioni del mondo del lavoro sono tra le più difficili e lo sviluppo economico avviene all'insegna di difficoltà enormi nell'organizzare i lavoratori in sindacati, di fenomeni gravissimi di sfruttamento e di degenerazione nell'attività lavorativa, di salari e trattamenti economici totalmente inadeguati. Una globalizzazione, cioè, che ha spalancato le porte della massima libertà di circolazione ai capitali e alle imprese ma che non ha riguardato i diritti sociali e le garanzie contrattuali e giuridiche per il mondo del lavoro.
Lo sviluppo di paesi come Yemen, Myanmar e Costa d'Avorio avviene all'insegna fenomeni gravissimi di sfruttamento e degenerazione dell'attività lavorativa
Tutto ciò chiama in causa il ruolo tanto delle organizzazioni sindacali operanti su scala mondiale nelle loro diverse articolazioni – la Confederazione sindacale internazionale; il Tuac, comitato sindacale consultivo presso l'Ocse; l'Actrav, il bureau di coordinamento delle attività dei lavoratori presso l'Oil – quanto delle grandi istituzioni, a partire proprio dall'Organizzazione internazionale del lavoro e dalle stesse Nazioni Unite. Non ci potrà essere un duraturo e stabile ordine mondiale, che pure è assolutamente necessario, finché il lavoro non sarà tutelato e protetto da standard e regole internazionali che impediscano i fenomeni degenerativi del lavoro nero e sottopagato, del lavoro minorile, dell'economia sommersa e irregolare, del dumping e della concorrenza sleale proprio sul valore del lavoro e sulla sua dignità. È questa, nel nuovo scenario globale che si delinea, la frontiera del lavoro e dell'impegno dei sindacati su scala internazionale.
Fausto Durante è coordinatore dell’area Politiche europee e internazionali Cgil