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La cultura del servizio è ancora un elemento portante nella dimensione identitaria dei lavoratori Enel/Terna? In che misura le scelte societarie hanno impattato sul profilo dei lavoratori? Cosa dovrebbe fare il sindacato e attraverso quali strumenti? A tutti questi interrogativi si è cercato di dare una risposta attraverso un’indagine (il report della ricerca) promossa dalla Filctem Cgil Emilia-Romagna e curata da Ires Emilia Romagna, coinvolgendo circa 300 lavoratori iscritti alla Cgil.
Il tratto da sempre distintivo del profilo identitario del lavoratore elettrico è la cultura del servizio, ovvero un senso di appartenenza aziendale motivato dall’utilità pubblica del servizio erogato. La nostra indagine mostra come il senso di appartenenza all’azienda sia ancora l’elemento più evidenziato quando si descrive il proprio lavoro agli altri (autorappresentazione). Appare lecito chiedersi, tuttavia, se e in che misura l’appartenenza aziendale, e quindi la fidelizzazione, sia il risultato del riconoscimento delle finalità sociali del proprio lavoro o diversamente della constatazione di stare dentro un’azienda strutturata in un generale contesto di sfilacciamento contrattuale. Sofisticando opportunamente le modalità di analisi è possibile rilevare come il senso di appartenenza aziendale risponda in via prioritaria ad un sentimento di “orgoglio collettivo”, ovvero giustificato dal senso di utilità pubblica legato al proprio lavoro. Se questa correlazione è vera in generale, la lettura per classe di età restituisce un profilo identitario divergente. Tra gli iscritti più giovani prevale sempre un forte senso di appartenenza aziendale accompagnato, però, dall’importanza del contratto e della retribuzione ma non dalla funzione pubblica del proprio lavoro. Sembra quindi profilarsi tra i più giovani una dimensione identitaria a più forte trazione individuale, dove la fidelizzazione è più espressione di un “orgoglio individuale” che collettivo.
L’autorappresentazione del proprio lavoro contrasta però con la visione del proprio lavoro. La costruzione identitaria sul senso di utilità pubblico-sociale dell’azienda per la quale si lavora dovrebbe infatti coincidere con una visione espressiva e non strumentale del lavoro. Ovvero chi nutre un sentimento di “orgoglio collettivo” verso la propria azienda non dovrebbe guardare al lavoro in chiave strettamente strumentale, ovvero come puro mezzo di sostentamento economico, ma dovrebbe percepire il lavoro come espressione della propria identità e personalità. Però, così non è. La contraddizione tra dimensione identitaria e visione del lavoro apre una frattura tra ideale e reale, tra ciò che si vorrebbe che il lavoro fosse e ciò che il lavoro è in realtà. La lettura in dinamica dei profili identitari sembra confermare questa linea interpretativa. Il senso di appartenenza all’azienda è infatti diminuito nel tempo per circa il 50% del campione mentre l’importanza dello stipendio è aumentata per oltre il 37% del campione a dimostrazione di come lo spostamento del baricentro identitario sia già in atto.
La trasformazione identitaria del lavoratore elettrico non è quindi solo imputabile ad una questione generazionale ma assume una dimensione più estesa lasciando intendere come le spiegazioni siano da ricondurre anche ad elementi di natura organizzativa. Il passaggio dalla nazionalizzazione alle liberalizzazioni, dal monopolio alle privatizzazioni ha contrapposto modelli organizzativi fortemente confliggenti. Si è passati da un modello a forte standardizzazione procedurale dove la tecnica era al potere e con un chiaro orientamento all’adempimento normativo ad un modello lean basato sull’orientamento al risultato e sulla proattività del singolo. La trasformazione organizzativa verso un modello lean è avvenuta grazie e, allo stesso tempo, a spese della cultura del servizio. Lo scaricamento a valle delle varianze produttive, e quindi sulla capacità di adattamento del singolo lavoratore, ha sì facilitato il cambiamento organizzativo ma, al contempo, ha prodotto uno sconvolgimento identitario tra i lavoratori, sempre più spiazzati di fronte a scelte aziendali tanto più coerenti con un concetto di qualità formale (imposta dall’Authority) quanto più lontane da un concetto di qualità sostanziale.
La lettura in chiave identitaria dei risultati consegna possibili spazi di azione alla rappresentanza sindacale, ovvero l’altro nodo tematico su cui l’indagine si è soffermata. Il ruolo della rappresentanza sindacale deve saper riprogettare la propria azione su una dimensione identitaria trasformata ma ancora fortemente legata alla cultura del servizio e alla utilità pubblica-sociale della propria attività. Una rappresentanza sindacale più capace di entrare e stare nei luoghi di lavoro e che sappia valorizzare il ruolo negoziale del territorio perché solo dal territorio è possibile ripartire per riappropriarsi di un “orgoglio collettivo”.
L’indagine restituisce un’immagine chiaroscurale del sindacato. La critica particolarmente ricorrente è il rischio di eccessiva politicizzazione (circa il 77% del campione) attribuendo al termine “politica” una connotazione evidentemente negativa. Ma più per un effetto indiretto imputabile al soggetto della rappresentanza politica, ovvero il partito politico. Se infatti la quasi totalità (85%) concorda con una autonomia organizzativa dai partiti politici solo 1 iscritto su 5 auspicherebbe un dialogo tra rappresentanza politica e rappresentanza sociale per meglio rappresentare il lavoro. Ad un modello socialdemocratico di dialogo tra sindacato e partito sembrano prevalere spinte populiste (“il sindacato è spesso l’anticamera di una carriera politica” raggiunge circa il 70% dei consensi). Sembrerebbe, dunque, che lo spazio di rappresentanza del lavoro lasciato scoperto dalla politica non potrebbe essere riempito da un rinnovato dialogo tra sindacato e politica ma da un nuova idealità incarnata dal sindacato. La larga parte del campione (circa il 60%), infatti, dice di essere iscritto alla Cgil “perché” crede “nella rappresentanza collettiva e nell’unità dei lavoratori” e solo una parte marginale ( circa il 20%) “perché ne” condivide “le battaglie e rivendicazioni”. Sembra quindi prevalere un senso di appartenenza più ideale che sostanziale: non è quindi tanto importante quanto la Cgil ha fatto ma quello che la Cgil è.
Se questa dinamica è particolarmente vera per i lavoratori over 45, per gli under 45 le motivazioni all’iscrizione devono essere cercate nel legame fiduciario instaurate con il delegato sindacale. La figura del rappresentante dei lavoratori, dunque, assume una funzione centrale non solo perché è il tramite attraverso cui agganciare le nuove generazioni ma anche perché il 70% del campione ha conosciuto il sindacato attraverso il contatto con il delegato sindacale. La percezione maturata nei confronti del sindacato come organizzazione passa dunque, inevitabilmente, per la figura del delegato sindacale e dal riconoscimento del suo ruolo dipende la valutazione sul sindacato. A tal proposito, è di interesse osservare come i delegati sindacali raccolgano ampie valutazioni positive tra gli iscritti soprattutto rispetto alle procedure di informazione e consultazione. I giudizi più contenuti si riferiscono al coinvolgimento rispetto alle pratiche negoziali. Letto in altri termini, gli iscritti rivendicano un ruolo più attivo nella definizione dei contenuti contrattuali ribadendo, ancor più, la necessità di decentrare il modello contrattuale verso i territori. Il giudizio meno positivo rispetto alle pratiche consultive relative alla contrattazione, infatti, non è tanto imputabile alle negligenze del singolo delegato sindacale quanto ad un eccessivo accentramento contrattuale.
L’indagine non si limita a ricostruire il rapporto esistente tra iscritto e sindacato ma offre al singolo lo spazio per indicare “cosa dovrebbe fare il sindacato per meglio rappresentare i lavoratori in azienda”. La scelta della Filctem Cgil Emilia Romagna di aprirsi alle valutazioni della propria base è sintomo non solo di un coraggio strategico ma anche della volontà di mettersi in gioco per un cambiamento organizzativo. Tra chi ha risposto (circa il 40%) sono identificabili 4 profili differenti:
Chi vorrebbe una maggior presenza e prossimità del sindacato nel territorio;
Chi vorrebbe un sindacato più inclusivo, ovvero dove i lavoratori non siano distinti per contratto, qualifica ed età, ed unitario, ovvero meno diviso nelle azioni di difesa dei lavoratori;
Chi vorrebbe un sindacato più attento a pratiche di informazione e partecipazione dei lavoratori, rafforzando ed estendendo il coinvolgimento dei lavoratori nei processi decisionali;
Chi vorrebbe un sindacato contrattualmente più forte e aggressivo.
L’elemento che taglia trasversalmente tutti i profili emersi è ancora il territorio e la sua centralità dentro uno spazio contrattuale e partecipativo. È quindi possibile osservare come l’indagine offra al sindacato una chiave di lettura per saper interpretare le trasformazioni in atto relativamente alla rappresentanza sindacale e al ruolo del delegato sindacale valorizzando opportunamente il welfare contrattuale come pratica capace di coniugare bisogno individuale e strumento collettivo.