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Non esiste lavoro nuovo e di qualità senza idee nuove e di qualità. Il calo degli investimenti in ricerca e innovazione è forse l’effetto più grave e immediato dell’assenza, nel nostro paese, di una vera politica industriale. Secondo gli ultimi dati dell’agenzia di valutazione del ministero dell’Istruzione, il contributo pubblico alla ricerca universitaria è di 3 miliardi inferiore alla media Ocse, un ambito in cui l’Italia è (in particolare nella speciale classifica della spesa in innovazione in rapporto al Pil) davanti solamente a Polonia e Grecia. Eppure, il nostro paese è ai primi posti al mondo per produzione scientifica, mentre le start up italiane conquistano assai spesso i mercati internazionali.
Come si spiega questa evidente contraddizione? E cosa bisogna fare per recuperare terreno rispetto agli altri paesi? Ne hanno discusso questa mattina a Firenze, nell’ambito delle Giornate del Lavoro, Silvia Bodoardo, ricercatrice al Politecnico di Torino, Giovanni Lo Storto, direttore generale della Luiss Guido Carli di Roma, e Vincenzo Moretti, della Fondazione Giuseppe Di Vittorio, che hanno dato vita all’auditorium del Palazzo Panciatichi a una tavola rotonda dal titolo “Idee e lavoro”, moderati da Federica Meta, giornalista di CorCom.
“Io credo che la prima cosa da fare – ha esordito Moretti – sia tornare a dare al lavoro l’importanza che merita. In Italia si suole dare troppo valore a ciò che si ha e troppo poco a quello che si sa e si sa fare. Si dice sempre che da noi le eccellenze, di cui siamo particolarmente ricchi, non riescono a fare sistema: ebbene, sono convinto che proprio il lavoro può giocare un ruolo fondamentale per ovviare a questo storico ritardo. In Giappone il lavoro è rispettato. Quel rispetto, che nel nostro paese manca, ritengo sia una formidabile precondizione per riuscire a fare sistema”.
Continuando nel suo ragionamento sulle cose da fare, Moretti ha poi indicato le priorità che l’Italia dovrebbe perseguire per colmare una volta per tutte il gap che la divide dal resto del mondo avanzato (che non è più soltanto quello occidentale): investire nella scuola e nella ricerca, incentivare la transizione delle piccole e medie imprese verso l’economia digitale, istituire tavoli di consultazione, di proposta e di supporto alle decisioni in materia di innovazione a livello locale, mettere al centro le città e i distretti. “Una sfida, quest’ultima, che mi appassiona: perché sostenere con maggior forza e convinzione i nostri centri storici e la nostra arte significa, da un lato, rilanciare la grande risorsa turismo – la sola in grado di abbattere la barriera tradizione-innovazione – e, dall’altro, assumere una volta per tutte il concetto di bellezza come moltiplicatore economico”.
Al centro del dibattito di Palazzo Panciatichi, il ruolo della formazione e dell’università in particolare: “Se c’è un nodo da affrontare con determinazione – ha commentato Lo Storto – è proprio questo. Bisogna combattere intensamente contro il falso mito del pezzo di carta che ormai in Italia non serve a nulla, che ha prodotto guasti enormi, a cominciare da un inevitabile impoverimento collettivo. Al contrario, laddove l’approccio è di altra natura, penso soprattutto agli Usa, si creano contesti – a cominciare dalla Silicon Valley – che fanno da lievito alle nuove idee, l’unica risposta in grado di creare sviluppo”. Nel nostro paese, nella fascia d’età tra i 25 e i 34 anni, si registra appena il 22 % di laureati, che entro il 2027 dovrebbe raggiungere quota 27. “Bisogna fare molto di più – ha aggiunto Lo Storto –, perché anche quel risultato sarebbe comunque ancora lontanissimo dal 40 per cento indicato dai principali organismi internazionali specializzati in bisogni formativi”.
Sul versante della conoscenza, inaspettatamente, l’intervento più “politico” è giunto da Silvia Bodoardo. “La scuola è cambiata in peggio – ha osservato – e questo ha fatto la differenza con il resto del mondo. Tagliare 83.000 posti di lavoro, indebolire addirittura la scuola di base, eccoli gli errori più gravi degli ultimi governi che si sono succeduti alla guida del nostro paese. Qual è la qualità della formazione che stiamo fornendo ai nostri figli? Bisogna crederci di più, investire sulla scuola, anche investendo sugli stipendi degli insegnanti”. E poi, naturalmente, investire sulla ricerca: “Sono reduce da un viaggio di lavoro in Cina – ha proseguito Bodoardo -. La fabbrica che lì ho visitato, specializzata nella progettazione di batterie, entro la fine dell’anno assumerà 200.000 nuovi addetti, in maggioranza ricercatori. Quando saremo mai in condizione di competere con queste realtà?”.
Competere in termini di investimenti, sicuramente no, “ma la testa, quella, ancora ce l’abbiamo”, ha osservato la ricercatrice del Politecnico: “Dobbiamo impegnarci di più a esportare le nostre tecnologie. Su questo versante, possiamo fin da subito dire la nostra”. “È vero, le risorse sono fondamentali – le ha fatto eco Moretti –, e i budget a disposizione delle grandi potenze che investono sulla ricerca sono di un altro pianeta. E tuttavia esistono anche altri tipi di investimenti. Penso in particolarmente alle cosiddette risorse organizzative e relazionali. In Italia abbiamo, in specie nel campo della fisica, degli ottimi formatori, che però sono sovente attratti dalle lusinghe che vengono loro dalle università statunitensi. Ecco, non investendo su quel tipo di risorse, più alla nostra portata, noi subiamo un doppio danno, perché in un colpo solo perdiamo il formatore che va all’estero e arrechiamo un danno enorme a giovani che, a causa dell’ennesimo caso di fuga di cervelli, perdono l’opportunità di una formazione universitaria di eccellenza. Un danno che, è evidente, non si misura solo in termini monetari”. (G.I.)