Da alcuni mesi, mi ero imposto di evitare ulteriori commenti e valutazioni sul ddl 1481/09 (del senatore Ichino). Lo ritenevo un tema ampiamente e sufficientemente dibattuto e - dal punto di vista dell’interesse di tipo giornalistico - già, sostanzialmente, “archiviato”. Non avevo previsto che esso potesse (prepotentemente) tornare “alle luci della ribalta” attraverso una lettera-aperta di Joseph Fremder, segretario nazionale di un sindacato autonomo dei bancari e, soprattutto, grazie ad un dibattito su “Le vie d’uscita dalla precarietà” - presente nel numero in edicola di “Micromega” - tra Pietro Ichino, Stefano Fassina e Piergiovanni Alleva.
Premetto, però, di riprendere la discussione sulla taumaturgica formula del “Tutti a tempo indeterminato, nessuno inamovibile”, per due ordini di motivi. L’uno, perché esplicitamente “chiamato in causa” dallo stesso Ichino; l’altro, perché stimolato dall’interessante “triangolare”. Sul primo punto: il senatore Pd, nel controreplicare a una lettera aperta del Segretario nazionale della Falcri-Silcea - rispetto all’accusa secondo la quale la legge 30/03 avrebbe aumentato il precariato - afferma: “Anche Fioretti, un altro nemico giurato della legge Biagi, ha tentato di rispondere, ma col risultato di confermare analiticamente l’esattezza della mia affermazione; la legge Biagi non ha alcuna responsabilità nell’aumento del precariato nel nostro Paese”.
Naturalmente, anche se tale dichiarazione meriterebbe (per l’ennesima volta) di essere contestata nel merito, in quest’occasione eviterò di farlo. Avverto solo l’esigenza di rilevare che il confronto che si sviluppò tra di noi, nel novembre dello scorso anno - grazie all’ospitalità offertaci dal sito web di “Micromega” - fu, da parte mia, tutt’altro che “un tentativo di risposta”. Rappresentò, piuttosto, l’analitica illustrazione, “punto per punto”, dei motivi che, ancora oggi, mi inducono a considerare il decreto legislativo 276/03 - e non la legge 30/03, “evocata” da Ichino quale legge “Biagi” - un vero e proprio “Supermarket delle tipologie contrattuali”.
Uno strumento attraverso il quale sono state rese più precarie alcune forme di rapporti di lavoro già esistenti (in particolare: somministrazione a tempo determinato, somministrazione di lavoro per soggetti svantaggiati e disabili, modalità di cessione di ramo d’azienda e part-time) e istituite nuove tipologie contrattuali, altrettanto precarie, (somministrazione a tempo indeterminato e contratto d’inserimento).
Anzi, a questo proposito, sarebbe auspicabile che il senatore Ichino si sforzasse di esplicitare con maggiori e migliori argomentazioni i motivi che, incredibilmente - nel corso del nostro contraddittorio - lo inducevano a sostenere: ”La norma sulla cessione di ramo d’azienda si colloca in tutt’altro capitolo” (rispetto all’aumento del precariato) e ”Quello del part-time è tema del tutto diverso da quello del lavoro precario”! Queste sì che sono affermazioni tendenti a negare anche l’evidenza!
Allo scopo, rispetto al giudizio sulle conseguenze prodotte dalla 30/03 e dal 276/03, mi conforta rilevare di essere in numerosa e qualificata compagnia. Tra gli altri, già nel 2006 (intervista a “Il Manifesto”, del 17 febbraio), Piergiovanni Alleva affermava: ”Vi sono, però, leggi non meno importanti dello Statuto, che la legge Maroni, o altri interventi legislativi del Centro-Destra, hanno stravolto, come la legge 230/62 sui contratti a termine e il Dlgs. 61/2000 sul part-time. O hanno abrogato, come la fondamentale legge 1369/1960 che fissava un principio base di ordine pubblico del lavoro”.
E ancora: ” Pietro Ichino ha presentato una tesi polemica, semplice, ma insidiosa”, secondo la quale la legge “Biagi” avrebbe cambiato poco o nulla in materia di precarietà e mercato del lavoro. “E’ vero l’esatto contrario (sosteneva Alleva) e non si può concedere all’Autore neanche l’attenuante dell’insufficiente informazione. Si tratta, infatti, di un giurista specializzato, ben addentro al dibattito di politica del diritto”. Inoltre - per rispetto nei confronti di Marco Biagi e per tentare di porre fine a un’inutile querelle - è opportuno evidenziare che, in effetti, è letteralmente sbagliato pretendere di difendere la legge “Biagi” dall’accusa di aver prodotto un aumento della precarietà!
Lo ritengo (testualmente) inesatto perché la 30/03 (sistematicamente richiamata quale legge “Biagi”), come noto, è una legge-delega e, in quanto tale, rappresentò soltanto un insieme di “linee d’indirizzo” cui il parlamento delegava il governo. Il tutto, a distanza di ben undici mesi dal vile attentato delle Br! E’ quindi evidente che, se c’è da difendere un provvedimento di legge dall’accusa di aver prodotto un aumento della precarietà, si tratta - senza alcun dubbio - del decreto legislativo 276/03! Decreto emanato a distanza di diciotto mesi dalla morte di Biagi! Certo, questo non significa disconoscere a Marco Biagi la sostanziale “paternità” sui provvedimenti adottati dai governi di centrodestra in materia di lavoro; si tratta, piuttosto, del tentativo di rappresentare quanta strumentalizzazione politica sia sottesa all’uso indiscriminato del suo nome.
Infatti, anche se profondamente convinto che - dalle disposizioni previste dal 276/03 al recentissimo “Statuto dei lavori” - oggi siamo nella condizione di certificare la grande capacità mostrata dal Legislatore nazionale nel tradurre in norme di legge i principi illustrati da Biagi nel 2001 (attraverso il “Libro bianco”), ritengo che ogni volta che si (s)parla di precarietà, abbinare a essa - in una sorta di collegamento automatico - Marco Biagi, piuttosto che il ministro (all’epoca in carica) Maroni, rappresenti un’inutile e strumentale forzatura.
La sensazione, anzi, la (personale) certezza, è che si utilizzi il nome del giuslavorista bolognese per comunicare - urbi et orbi - che criticare i contenuti del Libro bianco, della 30/03 e, ancora di più, del decreto 276/03, corrisponda a offendere il ricordo e infangare la memoria di Marco Biagi. Niente di più falso e strumentale.
Personalmente, rivendico il diritto di contestare le idee e le proposte di Marco Biagi, senza, per questo, dovermi sentire nella meschina condizione cui vorrebbe relegarci Sacconi attraverso il suo macabro anatema: ”Il nome di Marco Biagi peserà come una maledizione su coloro i quali volessero cancellarne l’opera o la memoria”! Quasi che, criticare, proporre di modificare o, addirittura, abrogare una legge (impropriamente e strumentalmente, evocata sempre come legge “Biagi”) possa corrispondere a un deicidio!
Duole, quindi, rilevare che siano ancora tanti coloro i quali si rendono (anche inconsapevolmente) partecipi di strumentalizzazioni dal carattere esclusivamente politico. In questo senso, a onor del vero, lo stesso Ichino non è esente da critiche quando, nel replicare al segretario della Falcri-Silcea - per difendere la legge “Biagi” - lo invita a non ripetere “l’errore in cui è caduta la sinistra politica e sindacale in questi otto anni: quello di demonizzare una legge che non ha alcuna responsabilità nell’aumento del precariato nel nostro Paese. Anche perché sulla base di quell’errore si è sparso il sangue di una persona”.
Un “inciso”, quest’ultimo, assolutamente “gratuito” e fuori luogo. Impropriamente (e irresponsabilmente) teso - a mio parere - ad associare qualsiasi (legittima) posizione di dissenso all’atto di barbarie prodotto il 19 marzo del 2002! Così come, d’altra parte, aveva già (subdolamente) fatto Sacconi nei confronti di Cofferati.
Tra l’altro, al riguardo, sarebbe opportuno tenere presente che, nel nostro Paese, il riferimento alle leggi è sempre avvenuto attraverso il loro numero cronologico (rispetto all’anno di approvazione) e/o - in alternativa - richiamando il ministro o il “presentatore” di turno. Senza andare troppo a ritroso, è sufficiente rilevare che ciò è stato fatto con la legge “Treu” (ministro del lavoro in carica), con la “Bossi-Fini” (idem), con la legge “Calderoli” (anche se, giustamente, meglio nota come legge “porcata”), con la riforma “Gelmini”, ecc.
Perché, quindi - per concludere su questo punto - insistere con la “Biagi”, se non per perpetrare l’uso distorto e strumentale che, del nome dello studioso spietatamente ucciso, è stato fatto dagli esponenti del centrodestra? L’altro motivo, che m’induce a riprendere la discussione sulla proposta Ichino, è rappresentato da alcuni problemi “di merito” che il confronto ospitato da “Micromega” ha avuto il notevole pregio di (prepotentemente) riproporre.
Mi riferisco, in particolare, all’esigenza di operare una sorta di “ricapitolazione” della sostanza del problema: cosa è la precarietà, qual è la condizione di coloro che la vivono, l’ipotesi Ichino risolve il problema o, piuttosto, servirebbe qualcosa di diverso? In questo senso, se le note (difficili e generalizzate) condizioni professionali e sociali denunciate da milioni di lavoratori - costretti (come iconograficamente ama rappresentarli Ichino) in regime di “apartheid” - offrono già un’esauriente risposta alle prime due domande, si può tranquillamente rappresentare che cosa significhi, in estrema sintesi, vivere una condizione di precarietà.
Una situazione lavorativa condizionata da un termine di scadenza (della stessa) già noto, o, comunque - anche se in assenza di un termine prefissato - dall’assoluta impossibilità di un minimo di garanzia circa la (pur minima e/o eventuale) continuità della prestazione professionale offerta! Senza dimenticare che - in virtù della tipologia contrattuale “scelta” dal datore di lavoro - ci si può trovare anche di fronte ad “aggravanti” di notevole entità (senza diritto a ferie retribuite, alla tutela della malattia, a una previdenza “sufficiente”, ecc.).
E’, quindi, evidente che la condizione di precarietà lavorativa - tanto quella vissuta dalla stragrande maggioranza degli “atipici”, quanto quella di molti subordinati “non standard” (a tempo pieno e indeterminato) - finisce per accompagnarsi a una situazione di altrettanta “instabilità” familiare e sociale. In un contesto di questo tipo, la soluzione può - oggettivamente - essere rappresentata dalla formula del: ”Tutti a tempo indeterminato, nessuno inamovibile”, tanto cara al senatore Pd?
Altrimenti detto: fermo restando che l’ipotesi Ichino continuerebbe a non garantire nulla circa la continuità temporale dei rapporti di lavoro - anzi, per i pochi che avrebbero potuto goderne, verrebbero meno le garanzie (attualmente) offerte dall’art. 18 dello Statuto - è credibile che i guasti prodotti dalla precarietà siano miracolosamente risolti grazie all’istituzione di un indennizzo economico e di un sostegno “alla danese”, in caso di licenziamento?
O, piuttosto - come sosteneva Eugenio Scalfari già nel 2006 - si tratta di una costruzione ideologica? Grazie alla quale “Questo tipo di riforme in realtà rendono impossibile il riformismo, accentuano il conflitto sociale e politico, si configurano infine come vere e proprie controriforme condotte all’insegna dell’antipolitica e di opzioni di natura tecnocratica” (in “La terapia che vuole dissolvere la sinistra”, La Repubblica, 18.01.2006)?
Tra l’altro, a proposito di protezione “alla danese” - o a livello di qualunque altro paese europeo (spesso richiamati dal senatore Pd) - in ossequio a quell’onestà intellettuale cui, sovente, lo stesso invita i propri interlocutori, sarebbe opportuno che Ichino, nel “reclamizzare” - soprattutto presso i giovani - il suo progetto, alternativo alla situazione presente nel nostro mercato del lavoro, riportasse anche due elementi di non trascurabile importanza.
Il primo, costituito dal fatto che, contrariamente a quanto si è (per tanto tempo) cercato di far credere agli italiani, l’ultimo “Rapporto sull’occupazione in Europa” rileva che il “grado di rigidità normativa” - che regola i rapporti di lavoro - è, in Italia, più basso di quello presente in molti dei paesi europei più avanzati. Il secondo elemento - anch’esso indispensabile, ai fini di una corretta informazione - è rappresentato dalla non irrilevante circostanza che, negli altri paesi dell’UE a 27, non esiste nulla di paragonabile al “gran bazar” delle tipologie contrattuali presenti in Italia!
Quindi, se è vero (perché “certificato”) che - nonostante la presenza, nel nostro ordinamento, della tutela prevista dalla (vituperata) “giusta causa” - il grado di rigidità normativa presente in Italia è inferiore a quello di molti altri paesi europei, diventano stucchevoli le ricorrenti accuse, mosse all’art. 18 dello Statuto, rispetto al “nanismo” delle imprese e, addirittura, al “freno” nei confronti dell’occupazione. Tra l’altro, rispetto al tema dell’incremento o meno dell’occupazione, è interessante rilevare che - di là dai proclami governativi che hanno contrassegnato gli anni successivi all’entrata in vigore del 276/03, secondo i quali in Italia l’incremento dell’occupazione aveva superato il milione e mezzo di unità - dall’ultimo trimestre 2003 al corrispondente trimestre del 2007, prima che la grande crisi economica e finanziaria sconvolgesse l’Europa, nel nostro Paese il “Padre di tutti i decreti” aveva prodotto un incremento dell’occupazione pari ad appena 864 mila unità!
Con un tasso di disoccupazione solo “formalmente” calato dell’1,7 per cento, perché, in effetti, determinato da circa 400 mila soggetti che, “scoraggiati”, avevano abbandonato la ricerca attiva di un’occupazione. Senza contare che al 1° gennaio 2004, secondo i dati Istat: ” Con la legge 189/02, per l’emersione del lavoro irregolare prestato da cittadini extracomunitari presso le famiglie, è stata sanata la posizione di 316.489 immigrati; mentre con la legge 222/02 le imprese hanno ufficializzato la presenza di 330.340 immigrati che lavoravano in nero”!
In realtà, il motivo grazie al quale, negli altri paesi europei - anche in quelli evocati da Ichino - non esistono lavoratori di serie A e di serie B, non è (certamente) rappresentato dall’assenza di una norma corrispondente al nostro (ormai) famigerato art. 18, quanto, piuttosto, da scelte di politiche del lavoro nettamente diverse da quelle adottate - in particolare negli ultimi dieci anni - in Italia.
Prima, tra tutte, l’illusione che le (fallimentari) politiche neo-liberiste - realizzate dai governi di centrodestra, in tema di lavoro - potessero (genericamente) limitarsi ad assecondare il mitico “mercato”, offrendo ai datori di lavoro le più ampie possibilità di scelta delle modalità attraverso le quali chiedere ai lavoratori di offrire la propria prestazione lavorativa. Da qui, l’incomprensibile proliferazione (unica in Europa) delle tipologie contrattuali attualmente disponibili nel nostro Paese.
Personalmente - considerata la situazione realizzatasi - continuo a essere convinto che: anche se la disponibilità di nuove (generalizzate e più “generose”) forme di “ammortizzatori sociali” - di natura economica e di supporto per l’accompagnamento a un’altra occupazione - sarebbe opportuna e graditissima, al fine di superare senza eccessivi affanni eventuali periodi di “vacanza occupazionale”, ciò non concorrerebbe minimamente a risolvere la condizione di precarietà nella quale, quasi sicuramente, ciascun lavoratore ricadrebbe una volta concluso il periodo di sostegno.
A tal fine, per evitare il pur minimo rischio di esprimere “certezze” e per tentare di rendere “visibili” le condizioni oggettive di coloro i quali Ichino - giustamente - definisce “lavoratori di serie B”, è (evidentemente) opportuno porsi qualche domanda. Soprattutto allo scopo di “smascherare” i tanti taumaturghi che accorrono al capezzale dei “precari” dopo aver ampiamente condiviso, sostenuto, difeso ed esaltato tutti i provvedimenti di legge che hanno concorso a determinare tali (sofferte) condizioni lavorative e professionali.
Quindi, ipotizzando di operare in una condizione di proposta Ichino “a regime”:
a) quanti potrebbero (impunemente) sostenere che un qualsiasi lavoratore (impegnato, già da alcuni anni, presso un call-center, con un falso - perché in regime di sostanziale “subordinazione” - contratto di lavoro “a progetto”) vedrebbe, miracolosamente e definitivamente, ridotto l’indice di precarietà del proprio rapporto di lavoro solo in virtù del fatto che, licenziato anche senza giusta causa, avrebbe titolo a un indennizzo economico, salvo, poi, ricadere di nuovo nell’identica condizione di precarietà?
b) chi sarebbe in condizione di garantire a un precario “pubblico” (medico, ricercatore, professore, pompiere, ecc), in regime di collaborazione coordinata e continuativa già da diversi anni (situazione diffusamente attuale) - per coprire, tra l’altro, veri e propri “vuoti” di organico - che la sua condizione di precario sarebbe (magicamente) superata?
c) chi potrebbe, tranquillamente, indurre un lavoratore (reiteratamente) “a tempo determinato” a non considerarsi più un precario, solo perché, se licenziato (anche senza giusta causa), titolare di un indennizzo economico? Soprattutto se lo stesso sarà stato (adeguatamente e correttamente) informato del - non insignificante - particolare che il suo rapporto a termine potrà avere, presso lo stesso datore di lavoro, una durata di ben sei anni; salvo poi, essere assunto - con la stessa o diversa tipologia contrattuale - da un altro datore di lavoro e “ricominciare il giro”?
d) chi non proverebbe (almeno) un attimo di titubanza e/o smarrimento di fronte alla concreta ipotesi che un qualsiasi lavoratore possa ritrovarsi nella non invidiabile condizione di essere vittima di un licenziamento non “collettivo”, non individuale “per motivi oggettivi”, “per motivi disciplinari” o “per motivi discriminatori” - ben più ardui da dimostrare, di quanto tenti di far credere Ichino - ma, semplicemente perché, il datore di lavoro, senza che il giudice possa contestarne l’illegittimità, abbia ritenuto di assegnargli una (falsa) motivazione di carattere economico od organizzativo?
E’, quindi, credibile che un contratto a tempo “indeterminato” (alla Ichino), unilateralmente risolvibile dal datore di lavoro in qualsiasi momento della sua vigenza, sia, in concreto, qualcosa di diverso - in termini di precarietà - da un qualsiasi rapporto di lavoro a termine “a scadenza variabile”?
Se, come personalmente immagino e auspico, già queste prime domande dovessero trovare risposte univoche, è pensabile che Ichino non avverta il peso dell’enorme responsabilità - morale, oltre che politica - che si accolla nell’alimentare una vera e propria “guerra tra poveri”, quando fa intravedere nella vigenza dell’art. 18 l’unico impedimento al superamento di quello che lui definisce “il dualismo del mercato del lavoro”?
Se è vero - come lo stesso denuncia - che “Esistono interi comparti dell’economia italiana nei quali non si assume in forma regolare”, che “Questa è una situazione di grave e diffusa illegalità, che andrebbe corretta applicando la legge come si deve” e, ancora, che “In una vasta zona del nostro tessuto produttivo il diritto al lavoro non c’è più”, perché proporre (molto semplicisticamente, a mio parere) di “arrendersi all’evidenza”?
Di fronte ad una situazione di diffusa e palese violazione delle norme - determinata anche da una legislazione per lo meno molto “permissiva” (per usare un eufemismo) - che senso ha procedere con ulteriori “deregolamentazioni”, piuttosto che pretendere l’irrinunciabile rispetto della legalità?
In estrema sintesi, posto che l’obiettivo indicato da Ichino - il superamento della condizione di apartheid nella quale versano i lavoratori da lui definiti “non garantiti”, rispetto a coloro i quali, invece, sono tutelati dall’art. 18 dello Statuto - è certamente condivisibile, perché, pur in presenza di una legittima quota di flessibilità “numerica” (oltre che “funzionale”), non mettere in campo tutti gli strumenti possibili (normativi, ispettivi, incentivanti, repressivi, dissuasivi, ecc) per impedire la proliferazione e, soprattutto, l’improprio (e reiterato) ricorso alle (troppe) tipologie contrattuali attualmente disponibili?
In questo senso, considerato che il senatore Pd afferma la verità quando sostiene che la maggioranza dei circa 900 mila lavoratori che hanno perso il posto di lavoro nel corso della grande crisi degli ultimi due anni sono quasi tutti collocati nell’area dei lavori di “serie B”, perché non “fare della coerenza virtù” e riconoscere che sono le modalità attraverso le quali, da alcuni anni a questa parte, si accede - di norma - al lavoro, a determinare l’incontrovertibile carattere della “cattiva occupazione”?
Tra l’altro, rispetto ai lavoratori di “serie A”, è solo il caso di rilevare che la c.d. “garanzia” - della quale, teoricamente, godrebbero i lavoratori tutelati dall’art. 18 dello Statuto - è tale solo sulla carta!
Le conseguenze della recente crisi economica, patite dai lavoratori “garantiti”, dimostrano - senza tema di smentite - che nessun lavoratore italiano è nell’oggettiva condizione di considerarsi tale.
Tra l’altro, sono convinto che Ichino ricorra ad una forzatura e commetta un errore di grande sottovalutazione (e semplificazione) del fenomeno quando afferma: “E’ la possibilità di non applicare la normativa in materia di licenziamento che costituisce un potente incentivo economico a ricorrere alla simulazione della collaborazione autonoma o comunque alla forma del lavoro precario da parte delle imprese”.
Personalmente, sono dell’avviso che i motivi siano almeno tre:
a) un indubbio beneficio economico, costituito dai minori costi (retributivi e contributivi);
b) un altrettanto consistente vantaggio di tipo “normativo”, rappresentato da: ferie non pagate, malattia non riconosciuta, modalità di “recesso”, ecc;
c) uno stato di “soggezione permanente” e di sostanziale “condizionamento” del lavoratore.
Senza, peraltro, dimenticare che, nel nostro Paese, oltre il 95 per cento delle imprese occupano meno di dieci dipendenti, con quasi il 50 per cento degli addetti totali. Se si considera, inoltre, che le piccole imprese (fino a 49 addetti) impiegano un ulteriore 21 per cento degli addetti, appare chiaro che l’area di applicazione dell’art. 18 non è poi così rilevante.
In più - e chiudo sul punto - sarebbe interessante (e istruttivo) se il senatore Pd, all’illustrazione delle catastrofiche conseguenze prodotte (alle imprese) dall’applicazione dell’art. 18, facesse seguire anche la puntuale e precisa indicazione del numero delle “reintegre” effettive disposte dai giudici italiani.
Certo, la condizione di diffusa precarietà che caratterizza la stragrande maggioranza dei nuovi rapporti di lavoro - e non solo quelli che coinvolgono i figli, anche quelli che riguardano molti padri - rappresenta un fardello molto gravoso che, però, a mio avviso, non si attenua né si riduce significativamente privando tutti i nuovi assunti della tutela dell’art. 18.
Così come non concorre a risolverlo la sterile (e, spesso, strumentale) contrapposizione tra giovani e vecchie generazioni di lavoratori.
Né concorre a “derubricare” il danno - arrecabile a tutti i futuri lavoratori, privati dell’art. 18 - la previsione della riconferma dell’illegittimità del licenziamento discriminatorio (come già anticipato, sempre estremamente difficile da dimostrare).
Anzi, a questo proposito, ritengo addirittura offensivo che - nella risposta al Segretario nazionale della Falcri-Silcea - il senatore Pd affermi di non considerare “In alcun modo coinvolte la dignità e la libertà del lavoratore in un licenziamento di natura economica o organizzativa, dove è invece essenziale proteggere la sicurezza economica e professionale del lavoratore”.
Personalmente, indifferente agli interessi di tipo “aziendalistico”, che sottacciono all’idea di (sostanziale) liberalizzazione del licenziamento, continuo, piuttosto, a sostenere che l’ipotesi di consentire un licenziamento senza “giusta causa” - per motivi di carattere “economico od organizzativo”, aggiuntivi a quelli (legittimamente previsti e ampiamente utilizzati) di carattere collettivo o individuale, per ragioni “oggettive” - rappresenta (ancora e sempre) una grave offesa alla dignità dei lavoratori. Che non sarà mai adeguatamente (e sufficientemente) quantificabile in termini meramente economici!
In definitiva, reputo che la soluzione al problema della precarietà non abbia nulla a che vedere con l’ abrogazione dell’art. 18 della legge 300/70 e - pur senza ripetere tutti i motivi che mi fanno ritenere il ddl 1481/09 non condivisibile - temo che lo stesso - per i circa nove milioni di lavoratori che Ichino definisce di “serie B” - rappresenti, in sostanza, un vero e proprio “specchietto per le allodole”. Nonché il più classico dei “cavalli di Troia”, per quel che (oggi) resta del Diritto del lavoro italiano.
Esso, infatti, seppur presentato nell’accattivante veste di epocale “Riforma del diritto del lavoro”, finalmente “traducibile in inglese”, come (ossessivamente) ama ripetere l’autore - tende, a mio parere, a produrre la sostanziale “stabilizzazione della precarietà” e, contemporaneamente, realizzare il sogno di generazioni d’imprenditori: il definitivo superamento dell’art. 18 della legge 300/70.
Questa volta, addirittura, attraverso il consenso di milioni di lavoratori (precari)!
Ichino, l'art.18 e la precarietà
Riceviamo e pubblichiamo
27 giugno 2011 • 00:00