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Il testo che segue è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n.2-2017 della Rivista delle Politiche Sociali. Gli abbonati possono leggerlo qui in versione integrale. Questo è invece il link alla rubrica che Rassegna dedica alla stessa Rivista
Nell’analizzare il ruolo del sindacato nel welfare occupazionale emergono alcune tendenze. La prima riguarda l’influenza del sindacato nel decision making in materia di welfare. Terminata, almeno per il momento, la stagione della concertazione, il sindacato ha mutato le sue strategie e i suoi campi di azione.
In primo luogo, si assiste a strategie di pressione esterna, non sempre agite in maniera unitaria, ma sostanzialmente supportate da tutte e tre le principali confederazioni. In secondo luogo, quasi a compensare il diminuito ruolo nel policy making a livello nazionale, si assiste a una maggiore attenzione al livello territoriale, dove già da tempo il sindacato negozia localmente tematiche di welfare (ricordiamo l’azione dei sindacati dei pensionati con i Comuni e i distretti socio-sanitari). La logica di azione sul territorio assume rilevanza anche per le tematiche di welfare occupazionale, in particolare le politiche sanitarie e di conciliazione vita-lavoro.
La seconda tendenza riguarda il sostanziale allineamento delle visioni e strategie relative al welfare occupazionale. Un allineamento che si osserva tra le confederazioni sindacali – gli ultimi accordi interconfederali supportano unitariamente lo sviluppo e la volontà di ampliamento della copertura del welfare integrativo – e, al loro interno, tra le categorie. Se in passato sono stati conclusi vari accordi separati (nazionali e di categoria) che riguardavano anche il welfare occupazionale, attualmente le divergenze si sono attenuate, anche se permangono alcune differenti visioni circa possibili effetti distorsivi, quali disuguaglianze tra i lavoratori e possibili rischi per il welfare pubblico.
L’aspetto sul quale si osserva un maggiore allineamento riguarda il ruolo del sindacato nella regolazione del welfare integrativo, considerato da tutte le confederazioni materia di azione collettiva e di raccolta collettiva dei bisogni. Le spinte all’azione unilaterale delle aziende porterebbero infatti al rischio di spostamento di risorse dal salario a tematiche che in realtà non raccolgono le reali necessità dei lavoratori o che non siano propriamente rilevanti strumenti di sostegno al reddito (le piattaforme precostituite possono rappresentare un rischio da questo punto di vista). L’intervento legislativo sta verosimilmente aiutando il sindacato a mantenere questo ruolo regolativo, incentivando le aziende a produrre welfare aziendale “negoziato”.
Permangono, tuttavia, delle differenze non trascurabili. In primo luogo, le confederazioni sindacali attribuiscono diversa importanza ai vari livelli contrattuali. Tradizionalmente la Cisl attribuisce molta importanza alla contrattazione aziendale, mentre la Cgil insiste sulla necessità di mantenere e semmai potenziare il contratto collettivo nazionale di categoria. In materia di welfare occupazionale, la Cgil insiste sulla necessità di creare un forte coordinamento di categoria per evitare eccessive parcellizzazioni a livello di contrattazione aziendale. Inoltre, la Cgil è molto attenta a evitare che si producano eccessive dinamiche di concession bargaining, soprattutto a livello di negoziazione del premio di produzione.
Da questo punto di vista, le differenze si notano molto tra le varie categorie: nei settori più “ricchi” (chimico-farmaceutico e bancario-assicurativo), il welfare aziendale non ha “eroso” il premio di produzione; mentre nel settore metalmeccanico la contrattazione è caratterizzata negli ultimi anni da accordi di tipo “difensivo” con forti difficoltà a negoziare il salario integrativo. Queste differenze tra settori introducono l’ultima tendenza, che non riguarda solo il welfare occupazionale: un mutamento degli equilibri tra le categorie nell’influenzare le strategie confederali.
Le riforme della contrattazione collettiva, seppur caratterizzate in alcune occasioni da accordi separati, così come le dinamiche di welfare occupazionale, sono state disegnate anche in base a quanto già da tempo accadeva in alcuni settori (il chimico-farmaceutico e il bancario-assicurativo tra questi). Se in passato era il settore metalmeccanico a rappresentare una sorta di rules-maker, attualmente questo ruolo sembra essersi almeno parzialmente spostato su altri settori che presentano buone performance, sia economiche che contrattuali. L’allineamento di cui abbiamo parlato è probabilmente anche influenzato da questi nuovi “rapporti di forza” tra le categorie sindacali.
Sulla base di queste tendenze, quali sono le sfide che il sindacato si trova ad affrontare? La prima è relativa al suo ruolo nel policy making. Se attualmente non sussistono le condizioni politiche per una ripresa della concertazione, è però rilevante per il sindacato continuare a essere riconosciuto dalle istituzioni quale interlocutore nei processi di riforma e di allocazione delle risorse, non solo in materia di welfare, ma più in generale nella regolazione dell’economia.
La seconda sfida riguarda l’estensione della copertura del welfare occupazionale. Le riflessioni di tutte le confederazioni si concentrano su quali strategie adottare per aumentare il numero dei beneficiari (anche se con visioni differenti circa il ruolo del contratto collettivo nazionale). A questo si collega il problema dell’adesione ai fondi integrativi, che presenta percentuali ancora non soddisfacenti, anche per via delle carriere discontinue dei lavoratori.
Da questo punto di vista, come ulteriore sfida, va considerata la capacità del sindacato di rappresentare in maniera efficace i bisogni dei lavoratori in materia di welfare occupazionale. Strumenti quali l’analisi dei bisogni non sono molto utilizzati; spesso sono iniziative che partono dal management e il sindacato non viene sostanzialmente coinvolto. In questo senso, la sfida è duplice: da una parte, il sindacato deve essere riconosciuto da istituzioni e aziende quale rappresentante dei bisogni di welfare dei lavoratori; dall’altra, deve riuscire a raccogliere i diversi bisogni provenienti dalla base e trasformarli in istanze collettive da portare al tavolo negoziale, cercando di non creare meccanismi “erosivi” del salario.
Sabrina Colombo è professore associato in Sociologia economica presso l’Università di Milano