Per parlare dell’Europa, per una volta, partiamo dall’America. Dopo le ultime elezioni di mid-term anche la stampa amica ha definito la sconfitta dei Democrats per quello che è: una catastrofe. Secondo i critici, ben poco della ripresa economica Usa è andata a vantaggio dei gruppi sociali che avevano dato la vittoria ad Obama (soprattutto la prima), che sono rimasti lontani dalle urne lo scorso autunno.

Ne sono certamente causa anche i meccanismi elettorali e istituzionali del maggioritario americano, poco rappresentativi dei ceti meno abbienti, vedasi il sempre più plutocratico ed elitista sistema di finanziamento della politica. Tuttavia, le ragioni immediate della sconfitta sono eminentemente distributive. Il generoso quantitative easing americano si è tradotta poco in distribuzione primaria.

La tendenza storica è altamente significativa
: dal 1973 al 2013 il reddito mediano di un lavoratore dipendente a tempo pieno è aumentata soltanto da 49.678 a 50.033 dollari mensili (US Census report). L’amministrazione Obama, pur avendo rilanciato indiscutibilmente la crescita, non ha affatto mutato le cose. Secondo American Prospect (che cita Emmanuel Saez dell’Università di Berkeley) la quasi totalità di questa crescita è andata a vantaggio del famoso 1% più ricco. A questo proposito, l’opinione pubblica americana è stata positivamente colpita dalla notizia che in Danimarca il potente sindacato 3F (che rappresenta i lavoratori non specializzati per la confederazione blue collar LO) ha ottenuto per i lavoratori di Burger King, McDonald’s, Starbucks salari di 20 dollari l’ora, contro i $8.90 degli Usa. E ciò in assenza di qualunque salario minimo.

La conclusione è semplice: per ottenere una distribuzione primaria degna di questo nome è strategica, più di ogni altra cosa, una forte organizzazione del sindacato. Questa per lo meno è la premessa di sistemi sociali (e di inclusione democratica) che comprimono la diseguaglianza e redistribuiscono i frutti di produttività e competitività, ed è quanto risulterebbe da una lettura attenta dei fattori individuati dalla curva di Kuznets. Il punto è però che questa risorsa europea è oggi largamente depotenziata dal regime economico ordoliberale vigente nella UE. Non è un caso che il declino elettorale socialdemocratico sia tanto ingente e ricordi, seppure a livelli partecipativi ancora impensabili per la democrazia Usa, le difficoltà obamiane.

Cevea, incisivo think tank della sinistra danese, fa notare che proprio per gli appartenenti al sindacato 3F il salario orario è nella media aumentato solo dello 0,5% nel decennio 2003-2012, mentre i migliori salari dirigenziali sono saliti del 36,1%. In Svezia, altre voci critiche puntano l’indice sulla eccessiva prudenza redistributiva del nuovo governo socialdemocratico di fronte alle potenzialità fiscali e di bilancia dei pagamenti. Certo, il governo attuale è ben diverso da quello di centro-destra appena sconfitto: il rafforzamento del welfare (a cominciare dalle strategiche assicurazioni sindacali “Ghent” contro la disoccupazione) e dell’occupazione giovanile prevedono stanziamento di 25 miliardi di Sek, contro i soli 10 del budget liberalconservatore. Ma rimane che si tratta di cifre intorno al 2% (scarso?) del bilancio, col proposito di rimanere entro la crescita prevista. Insomma: cambiamento senza espansione.

Secondo le teste pensanti del think tank/blog di sinistra Dagens Arena, dopo i tagli liberalconservatori (2006-2014) il welfare svedese avrebbe bisogno di almeno 110 miliardi. Eppure la ministra socialdemocratica dell’economia Magdalena Andersson annuncia misure che puntano ad una riduzione del debito pubblico sul Pil (oggi poco sopra il 40%) di 4 punti nel medio periodo. Senza giungere agli estremi della Germania (considerato un modello negativo dagli stessi think tank nordici), va preso atto che le terre della più avanzata socialdemocrazia non si smarcano dall’orientamento oggi prevalente in Europa.

Anche per questo la socialdemocrazia danese governa con sondaggi deprimenti. Quella svedese, che nel 2010 era stata di nuovo sconfitta con il peggior risultato in era di suffragio universale, ha riconquistato il governo nel settembre scorso con il secondo peggior risultato. Le socialdemocrazie europee sono indotte a politiche che perdono consenso, e quando vincono è perché le medesime politiche indeboliscono alla fine anche gli avversari liberalconservatori, favorendo solo nazional-populisti e affini.

La maggiore forza dei sindacati
europei (e specie nordici) e una maggiore propensione alla redistribuzione non sembrano sufficienti a perpetuare la base di consenso delle sinistre europee. Le ragioni sono verosimilmente l’indebolimento del welfare e delle politiche attive per il lavoro e la precarizzazione, fattori operanti anche nel Nord Europa che, insieme all’aspettativa economica generale, inducono i lavoratori ad accettare salari più bassi e il sindacato a moderare le proprie richieste salariali (Carlin e Soskice si diffondono a questo proposito sul caso tedesco, che però credo possa fare scuola anche altrove in Europa).

Quindi, se da un lato i deludenti risultati elettorali
(e sociali) americani suggeriscono che la crescita non è sufficiente a creare consenso e ci confermano la centralità delle politiche di creazione di lavoro e della parità tra capitale e lavoro (pilastri della tradizione socialista europea), dall’altro appare evidente che tali politiche e la stessa parità vacillano senza adeguate politiche economiche di contorno. Ecco allora che la sinistra Usa e quella europea sono ognuna manchevole di un elemento fondamentale in tutto o in parte a disposizione dell’altra. Così hanno problemi enormi a rappresentare ceti e classi che attendono da loro adeguato ascolto.

re-vision.info