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La storia, e con essa la politica, è piena di paradossi, che nella crisi emergono in modo ancora più evidente. In Italia, la linea della cosiddetta “austerità espansiva” adottata dai tecnici non funziona e viene smentita proprio dai numeri dello stesso governo, che mostrano inesorabilmente tutta l’inefficacia delle misure economiche fin qui adottate, sia sulla crescita, sia sul risanamento delle finanze pubbliche. Anzi, ogni provvedimento del governo accelera la spirale recessiva e porta l’Italia più lontano dall’uscita dalla crisi, producendo ostinatamente nuovi interventi di aggiustamento, a loro volta depressivi, e così via.
Secondo l’Ocse, nel triennio 2011- 2013, l’aumento delle tasse e la riduzione della spesa pubblica collocano l’Italia al quinto posto tra le principali economie industrializzate per austerità e addirittura al primo se si considera solo l'aumento della pressione fiscale. E qui, infatti, sta il paradosso: in funzione dell’euroausterità e del rigore di bilancio, il nostro paese registra la più forte intensità della caduta e le maggiori difficoltà di ripresa, con una perdita di Pil di circa 7 punti percentuali in cinque anni e previsioni economiche (Ocse, Fmi, Commissione europea) che decretano la recessione almeno fino al prossimo anno.
In altre parole, oltre 100 miliardi di euro di tagli alla spesa pubblica e aumento delle tasse, dall’inizio della crisi al 2012, e altri 120 miliardi previsti per il triennio 2013-2015, rendono inevitabile una caduta della domanda aggregata e una conseguente contrazione della crescita, acuendo peraltro il divario strutturale di produttività e competitività tra l’Italia e le altre grandi economie europee, senza peraltro generare fiducia nei potenziali consumi e investimenti.
Nell’ultimo rapporto del Fmi è stato sottolineato che per ogni punto percentuale di aumento della pressione fiscale o di tagli alla spesa pubblica la crescita del Pil si contrae più che proporzionalmente: il “moltiplicatore fiscale” agisce in modo negativo e in Italia genera una perdita di 1,7 punti per ogni punto di austerità. Il bilancio così non si risana mai e la decrescita riduce le entrate fiscali (anche potenziali) e crea nuova disoccupazione, minori investimenti e un altro giro della spirale recessiva.
Non a caso anche la Banca d’Italia ha stimato che le previsioni negative di crescita per il 2012 e il 2013 sono da attribuire per un terzo all’aumento del famigerato spread e al rallentamento dell’economia globale, per un terzo ai vuoti della domanda interna e, in particolare, alla caduta di consumi e investimenti, anche a seguito dell’incertezza e della sfiducia delle famiglie, nonché delle difficoltà di accesso al credito delle imprese, per un terzo alle stesse manovre di finanza pubblica all’insegna dell’austerità, prefigurando così un quadro occupazionale ancora sfavorevole e un peggioramento delle stesse previsioni di risanamento delle finanze pubbliche.
Il pareggio di bilancio richiesto dall’Europa non viene mancato nel 2013 soltanto perché i criteri contabili – riconoscendo l’impossibilità per quasi tutti i paesi dell’Unione monetaria di raggiungere tale obiettivo – sono stati modificati, permettendo di depurare dai saldi di finanza pubblica l’effetto congiunturale del ciclo economico (quindi dell’allontanamento degli obiettivi dovuto alla mancata espressione della crescita potenziale) e di escludere la spesa per le misure una tantum (per esempio: risorse per il fondo Salva-Stati) e considerare il meno 0,5 per cento come pareggio; anche se il peso del debito pubblico (e degli interessi sul debito), stando agli stessi numeri forniti dal governo, non accenna a diminuire. Eppure, la Legge di stabilità promossa dal governo, ora in discussione in Parlamento, si muove sulla stessa linea, nonostante già incontri l’opposizione anche delle forze politiche di maggioranza e delle parti sociali (esclusa la Cisl). Ulteriori tagli della spesa pubblica, in aggiunta a quelli predeterminati dal provvedimento dell’estate scorsa sulla cosiddetta spending review, per il triennio 2013-2015, riguarderebbero principalmente le amministrazioni locali (2,2 miliardi), il sistema sanitario (2,6 miliardi), i vari comparti che fanno riferimento ai fondi ministeriali (3,1 miliardi).
Ma il vero paradosso risiede nelle misure fiscali previste nel disegno di legge, ancora una volta inique e distorsive, anche se presentate come alleggerimento delle tasse. E così, annunciando una versione della Legge di stabilità la sera in Audizione alle parti sociali e cambiando completamente il testo del disegno di legge all’uscita dal successivo Consiglio dei ministri notturno, si è scelta la linea “più Iva e meno Irpef”, forse per andare incontro a quelle forze che da sempre chiedono di spostare il prelievo “dalle persone alle cose” e, anziché evitare aumenti delle tasse, si programma una riduzione del prelievo Irpef in corrispondenza del ridimensionano di detrazioni e deduzioni fiscali, nonché del parziale aumento dell’Iva (pur presentato come “una riduzione dell’aumento previsto”). Nello specifico, la riduzione Irpef agisce attraverso l’abbattimento della prima aliquota Irpef, dal 23 al 22 per cento, e della seconda, dal 27 al 26 per cento. L’operazione riguarderebbe circa il 70 per cento dei contribuenti (e non il 99 per cento come enunciato dal ministro Grilli alle commissioni Bilancio di Camera e Senato il 23 ottobre scorso).
Data, peraltro, l’attuale distribuzione del reddito e l’elevato tasso di evasione, l’intervento più giusto si sarebbe dovuto costruire modificando la terza (e non la seconda) aliquota, che resta al 38 per cento, così ancora più distante dalla seconda. All’alleggerimento Irpef segue – anzi anticipa, visto che dovrebbe essere retroattivo e agire già sui redditi dichiarati nel 2012 – una diminuzione anche del reddito deducibile (per esempio: canoni per immobili, assegni al coniuge, donazioni in favore delle onlus, ma non per gli istituti religiosi ecc.) e/o detraibile in misura del 19 per cento (per esempio: interessi per prestiti e mutui o per recupero edilizio, spese sanitarie, spese per corsi istruzione o per attività sportive, spese di locazione per studenti fuori sede ecc.), attraverso l’introduzione di una franchigia a cifra fissa di 250 euro, che si applica a tutte le singole richieste di alleggerimento fiscale interessate dalla bozza di Legge di stabilità per tutti i redditi dichiarati che superano i 15.000 euro annui.
Non solo. Per le detrazioni è stato introdotto anche un tetto di detraibilità, fissato a 3.000 euro (che, a differenza della franchigia, si applica alla somma degli importi portati a detrazione). La modifica delle aliquote, perciò, avrebbe potuto produrre un modesto beneficio fiscale, che purtroppo viene ridimensionato dall’introduzione della franchigia. Come se non bastasse, la Legge di stabilità certifica l’aumento di due punti del prelievo Iva. Questo governo, infatti, con il decreto “Salva Italia” e con il decreto per la spending review, aveva già deciso un aumento dell’Iva inferiore a quello previsto dal precedente governo, comunque di tre punti percentuali. L’aliquota ordinaria – già aumentata di un punto, dal 20 al 21 per cento, a ottobre 2011 – a partire dal luglio 2013 dovrebbe essere portata al 22 per cento, mentre l’aliquota ridotta aumenterà dall’attuale 10 all’11 per cento.
Questo incremento di “soli” due punti viene dunque addirittura presentato come un vantaggio per i cittadini e come “minor gettito” nel bilancio dello Stato, anche se rappresenta ulteriore aggravio fiscale chiesto agli italiani e, soprattutto, a quelli nelle fasce di reddito (e di consumo) più basse, ovvero la maggioranza dei lavoratori e dei pensionati. Come rilevato anche dall’Istat, in occasione dell’aumento dell’Iva varato a ottobre 2011, gli effetti di questo ulteriore aumento sarebbero complessivamente negativi, perché a un minor reddito disponibile corrisponde una maggiore propensione al consumo e, pertanto, una maggiore incidenza del prelievo Iva. Anche senza considerare il cambiamento degli stili di consumo, l’aumento di due punti dell’Iva si traduce sempre in un incremento pressoché “piatto” del prelievo e in un aumento parziale dei prezzi, cioè in una perdita di reddito reale per le fasce basse e medio-basse.
D’altra parte, a differenza di altri paesi europei, la quota di redditi molto bassi sul totale dei redditi dei contribuenti è più elevata e la scarsa produttività unita alla bassa concorrenza del sistema della distribuzione di beni e servizi, dei trasporti e della commercializzazione, moltiplica l’effetto inflazionistico dell’Iva e delle accise. Mettere poi in relazione l’aumento delle aliquote Iva con la diminuzione delle aliquote Irpef è profondamente sbagliato. Tale logica, oltre a non produrre nessun beneficio reale, non coinvolge nemmeno tutti i contribuenti: ne resterebbero esclusi circa 10,5 milioni, che risultano esenti dal pagamento dell’Irpef.
Secondo le indagini sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia e le indagini sui consumi e sulla povertà Istat, nella categoria dei poveri e degli incapienti sarebbe presente una gran parte di famiglie numerose; famiglie con un solo percettore di reddito; famiglie di giovani o di anziani soli; famiglie del Mezzogiorno; famiglie il cui cosiddetto “capofamiglia” (persona di riferimento come maggiore percettore di reddito) è spesso un operaio, un pensionato, un precario o un giovane autonomo. Senza contare che, in questo momento, è inutile e ingiusto alleggerire il prelievo anche ai redditi alti, soprattutto in assenza di un vero alleggerimento del cuneo fiscale che aiuti gli investimenti e la creazione di nuovi posti di lavoro.
La misura ipotizzata è senza dubbio iniqua e regressiva. Se si considera che l’aumento dell’Iva agisce sempre tutto sulla domanda, mentre la diminuzione dell’Irpef interessa solo in parte i consumi (andando anche in risparmi), si conta inevitabilmente anche un effetto restrittivo, quindi ulteriormente recessivo. I due punti di aumento Iva, infine, vanno evitati anche perché – alle condizioni legislative date – si potrebbe produrre un ulteriore incremento del tasso di evasione e di elusione fiscale, che genererebbe nuove iniquità nei confronti dei redditi dei lavoratori dipendenti e pensionati e, in generale, dei redditi “fissi”, senza nessuna certezza di maggiori entrate da redistribuire, essendo l’Iva già oggi l’imposta più evasa. In sintesi, la somma delle misure fiscali sui redditi delle persone fisiche previste nella Legge di stabilità genera un impatto negativo sulla quasi totalità dei contribuenti e per i redditi bassi e medi il beneficio Irpef viene più che annullato dalla stessa franchigia sulle detrazioni e sulle deduzioni.
Il combinato disposto delle tre misure fiscali comporterà perciò una perdita di reddito per il contribuente medio (con reddito annuo dichiarato di 19.250 euro) di circa 125 euro l’anno e per la maggior parte delle famiglie di lavoratori e pensionati rispettivamente di circa 420 euro e 290 euro l’anno; oltre ad allontanare la ripresa, deprimendo ulteriormente la domanda interna, l’occupazione, la crescita potenziale e lo sviluppo del paese. Nel complesso, le misure fiscali della Legge di stabilità 2012 che interessano le persone fisiche si caratterizzano per una forte regressività, segnando un impatto sul reddito dichiarato annuo del singolo profilo “medio” del lavoratore dipendente, del libero professionista e del pensionato di eguale misura (meno 0,32 per cento); un impatto maggiore su quello di un operaio (meno 0,53) e di un lavoratore precario (meno 0,69); il più alto su un pensionato sociale Inps (meno 0,86).
Fatta eccezione per l’imposta di bollo sulle transazioni finanziarie, le misure fiscali del disegno di legge non invertono la tendenza di un sistema che premia le ricchezze “parassitarie” (evasione, rendite, speculazione finanziaria ecc.), scoraggia gli investimenti produttivi e deprime i consumi. Il sistema fiscale italiano risulta tra i più ingiusti del mondo e la politica economica di questo governo non intende usare la leva fiscale per la crescita e lo sviluppo. Gli interventi previsti dunque sono sbagliati soprattutto perché non privilegiano realmente i redditi “fissi”, che finora più di tutti hanno pagato gli aumenti di tasse e imposte, anche a causa del fiscal drag.