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La presidenza del Consiglio di Mario Monti verrà ricordata per alcuni indiscussi meriti e molti limiti. Il primo merito da riconoscergli è certamente quello di aver saputo evitare la bancarotta del sistema Italia esattamente un anno fa, quando i mercati si orientavano a considerare il nostro paese insolvente alla stessa stregua della Grecia. Il secondo merito, effetto e condizione del primo, aver ricostruito un'immagine internazionale e soprattutto europea dell'Italia come Paese serio, in grado di rispettare gli impegni e svolgere un ruolo da protagonista nel dibattito sul futuro dell'Unione. Il terzo merito è quello di aver archiviato definitivamente, malgrado qualche ripetuta incertezza verbale, il ventennio berlusconiano.
Crediamo che questi "successi" del presidente Monti siano oggettivi e non incrinabili nemmeno dagli ultimi patetici tentativi di sopravvivenza del berlusconismo cui stiamo assistendo. Con Monti, nei fatti, finisce la "seconda Repubblica", con Monti è iniziata una fase transitoria ancora aperta per la costruzione della "terza Repubblica italiana".
I limiti dell'esperienza Monti sono ovviamente meno "oggettivi" e dipendono molto dal punto di vista di chi la valuta. Dal versante sindacale non è perdonabile al governo Monti il fatto di aver annunciato una politica di "rigore, equità, crescita" e aver realizzato, solo ed esclusivamente, una politica di rigore a senso unico (fatta di tagli alla spesa pubblica e aumento della tassazione sui ceti meno abbienti) senza alcun criterio di equità neppure simbolica nei sacrifici richiesti e rinviando le politiche di crescita a una stagione futura.
Ammesso che il Prof. Monti creda davvero alla necessità di attuare politiche "attive" per la crescita, cosa non scontata per il pensiero economico liberista. Questa riduzione della politica al solo rigore ha accentuato la recessione e la disoccupazione del Paese. Il non aver mantenuto fede alle dichiarazioni programmatiche fatte in Parlamento ha indebolito anche l'effetto delle manovre avviate e ridotto il clima di fiducia e la volontà di partecipare del Paese al proprio risanamento: si sono subiti i sacrifici perché ritenuti ingiusti e ineguali, invece che assumerli come elemento di redistribuzione del reddito, seppure in emergenza.
Difficile da accettare è stata anche la composizione di una squadra di ministri che, al di là dell'attributo di "tecnico" che si sono più o meno autoattribuito, ha dimostrato scarsa conoscenza "tecnica" dei problemi che si volevano affrontare, nessuna sensibilità degli effetti sociali dei provvedimenti assunti, una presuntuosa illusione di autosufficienza.
L'aver liquidato l'esperienza del confronto con le parti sociali alla stregua di un vincolo di un passato corporativo da superare ha prodotto non pochi errori nella realizzazione delle "riforme" realizzate o spesso solo annunciate dal governo Monti. In questa distanza tra le dichiarazioni e la realtà, il governo Monti ha praticato una strana continuità propagandistica con il governo precedente. Ora siamo alla vigilia di un appuntamento elettorale che ripristinerà un minimo di regole "normali" di democrazia per la costituzione di un nuovo governo che abbia una maggioranza politica certa e stabile. A questo governo, chiunque vinca le elezioni, toccherà colmare i limiti dell'agenda Monti e definire politiche non più rinviabili per l'equità e la crescita.