PHOTO
Il lavoro nero non piace a nessuno e, guardando i titoli dei giornali più diffusi sull’argomento, da un paio di mesi a questa parte desta preoccupazioni crescenti. Sta forse cambiando qualcosa? Effettivamente, i dati Istat segnalano una progressione del tasso di irregolarità delle unità di lavoro tra il 2013 e 2014 senza precedenti dal 2000. Nel 2014, ultimo anno disponibile, ad un tasso complessivo pari al 15,7% corrispondono punte, tra le attività più esposte, fino al 59,7% nel lavoro domestico, dove il tasso cresce di oltre 3 punti percentuali rispetto al 2013. Eppure, a destare tali preoccupazioni non sono i dati appena citati, quanto gli effetti del decreto Legge 25/2017, quello in cui il governo trasforma in legge i quesiti referendari proposti dalla Cgil sull’abolizione del lavoro accessorio e sulla responsabilità solidale negli appalti.
In particolare, le osservazioni e i commenti di editorialisti e opinionisti si soffermano sul fatto che abrogando del tutto il lavoro accessorio si sia eliminato il rischio di un suo abuso, ma anche la possibilità di un lavoro regolare per i tanti casi in cui l’abuso non c’era. Sembrerebbe, insomma, la solita storia del bambino e dell’acqua sporca, anche se in questo caso del bambino non c’è traccia e l’acqua, probabilmente, non è mai stata pulita. Occorre, insomma, evidenziare le ragioni a sostegno dell’abrogazione del lavoro accessorio per come l’abbiamo conosciuto, mettendo a fuoco due elementi: il primo, relativo al rapporto tra voucher e abuso; il secondo, alla dinamica di consolidamento dello strumento.
La liberalizzazione del lavoro accessorio, giustificata con il contrasto al lavoro nero, ha riguardato sia gli elementi oggettivi della disciplina del 2003, che quelli soggettivi. Da un lato, quindi, ha finito con il tradurre gli elementi tipici del lavoro informale di alcuni settori particolarmente esposti al rischio evasione in tutti i settori produttivi e, dall’altro, ha incrementato la diseguaglianza tra quanti per vivere e progettare la loro vita necessitano di un salario e di un sistema assicurativo e quanti, potendo o dovendo pensare ad altro, prestano di tanto in tanto la propria opera per lavoretti saltuari e fino a un certo importo.
È stata proprio la rimozione di tali limitazioni ad aver fatto venire meno le condizioni che facevano delle prestazioni accessorie un lavoro occasionale, determinando l’ammissione del quesito referendario proposto dalla Cgil. Ora, se il venir meno delle condizioni specifiche del lavoro accessorio ha ricomposto la distanza tra quello e il lavoro subordinato, rendendolo una concorrenziale alternativa al secondo, nella realtà dell’esperienza lavorativa, a venire meno è anche la distanza tra lavoro accessorio e lavoro irregolare. A sintetizzare efficacemente questa condizione è un lavoratore intervistato in occasione della ricerca sul lavoro accessorio realizzata per l’Ires ER, a inizio 2016, quando afferma che “il lavoro a voucher è meglio, ma in nero è meglio uguale”.
Al pari del lavoro nero, infatti, il lavoro accessorio, per come l’abbiamo incontrato nelle storie dei lavoratori, è povero, insicuro, non è tutelato, senza alcuna garanzia per il futuro ed esaspera la condizione di subordinazione. È per questo che, sempre in occasione di quella ricerca, ci siamo interrogati sulla natura dell’emersione prodotta dal lavoro accessorio, distinguendo dall’emersione inclusiva, capace cioè di restituire alla relazione lavorativa una sua dimensione istituzionale, l’emersione meramente contabile, la sola garantita dal sistema dei voucher.
In assenza del perimetro contrattuale della subordinazione, infatti, la regolarità del lavoro prodotta con il voucher è relativa alla sola transazione economica. Non solo, quindi, viene meno la contropartita alla condizione di subordinazione che, storicamente, ha reso più o meno accettabile la vendita di un certo tempo di vita di un individuo ad un datore di lavoro che ne dispone, ma viene meno anche la possibilità di rivalsa del lavoratore nei confronti del datore di lavoro scorretto.
Ad aver reso il voucher accettabile ai più, è stata soprattutto l’introduzione di una minima contribuzione a copertura degli infortuni, pari al 0,7%, e un altrettanto minima contribuzione alla gestione separata dell’Inps, pari al 1,3%. A questo 2% di detrazioni, si aggiunge anche lo 0,5% di spese di gestione. Al netto dell’effettiva opportunità assicurativa, la libertà di negoziazione fa sì che siano le parti, che uguali non sono, a decidere chi debba pagare cosa. Non è un caso che alcuni degli intervistati, nella stessa occasione citata, abbiano semplicemente visto il voucher come l’occasione di riduzione della loro paga oraria: da 10 euro in nero a 7,5 euro a voucher. L’emersione, insomma, ammesso che ci sia stata, potrebbe averla pagata il lavoratore.
Già gli autori del rapporto WorkInps del 2016 hanno sottolineato come le Regioni in cui il ricorso al lavoro accessorio è più intenso in un certo anno, prendendo a riferimento la media dei voucher riscossi per prestatore, siano anche quelle in cui il lavoro irregolare incide di più l’anno successivo. Questo valeva nel 2013, ma lo si può osservare anche nel 2014. Tra i due anni, il lavoro irregolare non solo cresce, ma cresce di più proprio nelle regioni in cui il ricorso al voucher è maggiore (cfr. grafico in Figura 1). Da ciò non si può certo dire che il lavoro accessorio favorisca il lavoro irregolare, ma che gli esiti dell’azione di contrasto al lavoro irregolare del lavoro accessorio sono quantomeno dubbi.
Figura 1: Incidenza % dei lavoratori irregolari su totale occupati per regione – confronto 2013-2014
Fonte: elaborazione su dati Istat (2017)
L’abuso, insomma, è connaturato al voucher stesso.
Come già è stato osservato, prima ancora che gli interventi legislativi, ad aver acceso i riflettori sul tema del lavoro accessorio è stata la sua irresistibile progressione. Nonostante le riforme siano occorse prima del 2015, infatti, è con l’avvio del monitoraggio nell’Osservatorio sul precariato che il voucher è diventato un elemento di discussione, tra gli addetti ai lavori prima, nel dibattito più generale poi. Le motivazioni del crescente interesse sono rintracciabili in quelle variazioni a tre cifre che hanno portato, nel 2016, all’acquisto di 133.827.843 voucher del valore nominale di 10 euro. Si tratta del 95% in più del 2014, ma dal 2013 la crescita è stata anche più significativa in regioni come la Sicilia con oltre il 139%, la Campania (133,9%), la Toscana (115,8%), la Liguria (115,1%), la Lombardia (114,7%), la Puglia (108,7%), l’Abruzzo (107,7%) e il Lazio (106%). La variazione è stata meno significativa nelle regioni in cui l’utilizzo del sistema dei buoni era già consolidato, come Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, che da sole, nel 2016, acquistano il 44,1% dei voucher totali. L’Osservatorio mensile sul precariato dell’Inps, comunque, dà conto di una sola parte della storia, quella relativa ai voucher venduti, rimandando all’aggiornamento annuale dell’Osservatorio sul lavoro accessorio le informazioni relative ai “prestatori”.
Se i dati sui voucher venduti indicano una progressiva strutturalizzazione dello strumento, tale lettura è confermata anche in quelli sui prestatori di lavoro accessorio che, con l’aggiornamento al 2016, arrivano a quota 1.765.810, il 286% in più del 2012, quando erano 365.911. Un primo elemento a sostegno della lettura della strutturalizzazione dello strumento, e delle relative conseguenze, arriva dall’osservazione della composizione per età dei lavoratori, sempre meno differenziata (cfr. grafico in Figura 2). Mentre nel 2012 il 60% dei prestatori era compreso tra gli under 25 e gli over 49, nel 2016 per arrivare al 60% bisogna sommare l’incidenza di almeno tre classi. Nel complesso, comunque, aumenta l’incidenza dei lavoratori fino a 34 anni, che supera il 50%. L’età media, infatti, nel 2016, si abbassa ulteriormente rispetto agli anni precedenti arrivando a 36,1. Le femmine, prestatrici di lavoro accessorio risultano più giovani (35,1 anni in media) rispetto ai maschi (37,2), che nel 2016 riducono ulteriormente la loro incidenza, arrivando al 47,7%.
Figura 2: Composizione per età lavoratori voucherizzati (2012-2016)
Fonte: elaborazione su dati INPS (2017)
Effettivamente, nonostante la componente maschile del mercato del lavoro sia maggiore di quella femminile (nel 2016 le forze di lavoro con almeno 15 anni contano 11.043 donne e 14.928 maschi), l’incremento dei lavoratori voucherizzati, rispetto al 2012, ha visto prevalere la componente femminile, tradizionalmente più esposta alla fragilizzazione del lavoro, +4,5% a fronte del +3,2%. Un altro dato, graficamente rappresentato nella Figura 3, ci dice che sempre più prestatori, per rimanere nel lessico del legislatore, si trovano a reiterare l’esperienza del lavoro a voucher. La lettura del fenomeno può non essere univoca, ma, qualsiasi siano le condizioni che hanno dato forma al contatto di sempre più persone con quella tipologia di impiego, è indubbio che il lavoro accessorio abbia progressivamente perso quel carattere di transitorietà che sembrava implicito nella limitazione originale ai soli non lavoratori.
Figura 3: Lavoratori voucherizzati, composizione per persistenza nel lavoro accessorio – Val. Assoluti (2012-2016)
Fonte: elaborazione su dati Inps (2017)
Di ciò si deve tenere conto anche pensando al progressivo incremento del numero medio di voucher riscossi dal singolo lavoratore che vanno dai 61,9 del 2012 ai 74,2 del 2016 con picchi oltre i 90 voucher medi in alcune regioni dell’Italia settentrionale. Anche guardando dal punto di vista della definizione del reddito disponibile, quindi, i dati forniti dall’Inps suggeriscono una sempre maggiore incidenza della quota ascrivibile al lavoro accessorio. Ciò vale, inoltre, per le lavoratrici più che per i lavoratori di tutte le fasce d’età, visto che le prime riscuotono mediamente 76,4 voucher da 10 euro, mentre i secondi 74,1.
Tabella 1: Voucher (val. 10 euro) riscossi in media per Regione (2012-2016)
Fonte: elaborazione su dati Inps (2017)
L’importanza del dato sta nella lettura già fornita nel rapporto WorkInps, dove si osserva che “maggiore è il numero di voucher percepiti (dunque meno casuale/episodica è l’attività svolta) maggiore è la probabilità per un lavoratore di essere re-impegnato con la medesima tipologia di regolazione anche nell’anno successivo”.
Se dunque è vero che il voucher ha rappresentato un elemento paradigmatico nel processo di informalizzazione del lavoro in Italia, tale tendenza non scompare con la soppressione dei buoni lavoro così come li conoscevamo e, comunque, non è limitata ad un solo Paese. Anche uscendo dai confini nazionali ed europei, infatti, è stato ampiamente rilevato come la preferenza delle imprese per l’utilizzo di manodopera – a vario titolo – informale, talvolta giustificata con i picchi di produzione, talaltra con la semplice esigenza di riduzione dei costi, evidenzia il tentativo delle imprese di eludere gli obblighi e le responsabilità sociali che derivano dall’attività economica. Che strumenti analoghi a quello del voucher possano in qualche modo arginare i rischi derivanti da tale dinamica non sembra una strategia sostenibile, tanto più se tali strumenti perseguono la logica secondo la quale riduzione dei costi e semplicità di utilizzo sono un problema di cui è il lavoratore a doversi far carico.
Gianluca De Angelis è ricercatore dell'Ires Emilia Romagna