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A pochi giorni dal terribile terremoto che ha colpito il Nepal non sono ancora quantificabili le reali dimensioni del disastro, anche a causa dell’estrema difficoltà di raggiungere una popolazione dispersa in piccoli villaggi, in vallate e alture già isolate in situazioni di ordinaria amministrazione. Quello che è certo è che il sisma, oltre a un enorme numero di vittime, lascerà per lungo tempo in ginocchio un paese già di per sé enormemente provato dalle difficoltà sul versante economico e sociale.
Nonostante i progressi realizzati, in particolare a partire dal nuovo processo democratico e dalla proclamazione della Repubblica, il Nepal – con poco più di 1.500 dollari annui di reddito pro-capite a parità di potere d’acquisto – è il secondo paese più povero dell’Asia, dietro solo all’Afghanistan e il 163esimo nella scala globale dei redditi (su 186 paesi).
Negli ultimi dieci anni la povertà assoluta (considerata dall’Onu alla soglia di 1,25 dollari al giorno) si è praticamente dimezzata, ma riguarda ancora più di un quarto della popolazione, mentre il 53% sopravvive al di sotto dei 2 dollari giornalieri. Stiamo parlando di un paese la cui economia è prevalentemente rurale: l’agricoltura povera e di sussistenza costituisce solo il 36% del prodotto interno, ma occupa il 76% dei lavoratori. Industria e artigianato danno lavoro solamente al 6% degli occupati e incidono per il 15,5% dell’economia, mentre la voce più importante, i servizi, costituisce il 48,5% del prodotto interno, occupando solo il 18% dei lavoratori. In questo contesto, diffusissimo è il lavoro informale e vasta è la piaga del lavoro minorile, che secondo i dati più recenti coinvolge quasi due milioni di bambine e bambini nella fascia 5-14 anni, praticamente uno su tre.
L'attenzione dell’opinione pubblica internazionale è tutta concentrata sul turismo e, in particolare, sulle spedizioni alpinistiche nelle vette che costituiscono il “tetto del mondo”: l’Everest per primo, ma anche le innumerevoli cime del complesso himalayano. Le ricadute economiche di tali attività sono tuttavia marginali: gli 800 mila turisti che hanno visitato il Nepal nel 2013 hanno contribuito solamente al 4% del suo Pil.
A questo dato, fa da importante contraltare il valore di 5,5 miliardi di dollari delle rimesse degli ormai tre milioni e mezzo di emigrati all’estero per lavoro, il 28,8% del Pil nel 2013. I paesi del Golfo Persico hanno gradualmente soppiantato l’India e la Malesia come paesi di destinazione. Nel solo Qatar lavorano oggi quasi 500 mila nepalesi (su un totale di un milione e 400 mila immigrati nell’emirato): non è certamente casuale che provenga proprio dal Nepal la maggioranza delle vittime di quell’ecatombe – stimata a oggi in almeno 1.200 morti sul lavoro – che sta funestando la costruzione degli stadi e delle infrastrutture per i mondiali di calcio del 2022.
La democrazia in Nepal è ancora decisamente giovane. La monarchia della dinastia Shah-Rana è caduta – dopo 238 anni – solo nel maggio del 2008, grazie alla mobilitazione popolare, all’accordo tra il vasto arco di partiti “storici” e la guerriglia maoista, alla mediazione dell’Onu per una Costituzione provvisoria e alle prime elezioni politiche “libere” della storia del paese. Un ruolo fondamentale nella lotta per la conquista della democrazia e per l’instaurazione della Repubblica (federale democratica) lo hanno svolto i sindacati.
Si può facilmente immaginare quanto difficile sia fare sindacato in un paese così povero, con una vasta diffusione del lavoro informale e nel contesto di una frammentazione geografica e sociale che ha pochi eguali nel mondo. E tuttavia il movimento sindacale è presente e diffuso. La Cgil ha un forte legame in particolare con il Gefont, che – al pari delle altre organizzazioni dei lavoratori – assolve un compito cruciale nella quotidiana difesa dei diritti dei ceti sociali più deboli del paese. Il Gefont è stato, tra l’altro, un partner autorevole nel processo di costruzione della nuova Confederazione internazionale dei sindacati (Csi-Ituc), fondata a Vienna nel 2006.