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Le mani bucate delle Regioni è il titolo di un recente editoriale di Sergio Rizzo sul Corriere della sera. Il tema è tutto nel titolo. La spesa delle Regioni – scrive Rizzo –, è cresciuta dai 119 miliardi di euro del 2000 ai 209 del 2009, in gran parte buttati nel buco nero della sanità (il 75,6 per cento della spesa). Tre volte e mezzo l’inflazione. Il doppio rispetto alla crescita registrata dalla spesa pubblica italiana nel suo complesso (37,8 per cento). Ciò nonostante la sanità, con poche eccezioni, fa acqua. Quindi – è la conclusione – la spesa non solo è stata eccessiva ma anche male indirizzata. Morale? Bisogna tornare a una finanza pubblica centralizzata nello Stato. Al potere supremo della Ragioneria generale. Il Titolo V è stata una sciagura, perché ha impedito al Tesoro di controllare la finanza regionale.
Domando a Rizzo: ma come mai in Germania la finanza federale è virtuosa? Non sarà, qui in Italia, un problema tutto nostro, risolubile non tanto attraverso il rafforzamento dei gendarmi centrali, quanto introducendo seri controlli preventivi, un sistema efficace di “avvisatori” che valga a ricondurre le Regioni sulla via di una finanza controllata, senza però togliere loro la possibilità di spendere responsabilmente e avvedutamente?
È stato Sabino Cassese il primo ad avvertire che quando le funzioni pubbliche vengono trasferite dal centro alla periferia aumenta quasi per un automatismo oggettivo il rischio della corruzione, anzitutto perché cresce la “prossimità” tra l’amministrazione e gli interessi e poi perché (per lo meno in Italia) le burocrazie regionali, reclutate con minori garanzie, sono più permeabili dalla politica di quanto non accada a livello centrale.
Ma, soprattutto – ed è questo il punto fondamentale –, i controlli sull’amministrazione periferica (Regioni, Province, Comuni) sono lasciati pressoché interamente alla autodisciplina interna, essendo inefficace l’azione delle sezioni regionali della Corte dei Conti (controlli legalistici e a posteriori) e praticamente inesistenti altre eventuali forme di vigilanza sui conti degli enti locali. Il Coreco, istituto certo da non rimpiangere (anche per la allora già elevata commistione con la politica), costituiva però anni fa quanto meno un paletto esterno. Il segretario comunale di carriera, di fatto dipendente dal ministero dell’Interno, sarà pure stato un odioso residuo di invadenza centralistica, ma per lo meno rappresentava in molti casi una remora alla totale discrezionalità delle politiche di spesa degli enti locali.
Oggi la sostanziale scomparsa di questa rete di controlli ha generato il mostro del quale solo adesso si accorge la grande stampa d’opinione (ma vorrei dire a Rizzo che se ci studia un po’ scoprirà che il mostro era stato individuato e denunciato – ahimé invano – già molti anni fa). Sappiamo qual è il disastro, ne conosciamo le cause. La disorganizzazione degli apparati, innanzitutto, ideale perché la corruzione alligni e detti legge. La scarsa separazione politica-amministrazione (quanto male ha fatto nei ministeri la sciagurata legge sullo spoil system…). Poi la mala gestione degli appalti, con la consuetudine diffusa degli affidamenti diretti al posto delle gare. Poi ancora la pessima politica del personale, basata su concorsi ad personam o addirittura sulla prassi dell’assunzione fuori sacco, degli ope legis, delle promozioni, retribuzioni, trattamenti aggiuntivi privi dei presupposti di legge.
E ancora, l’uso senza regole dei fondi europei (il grande business degli ultimi anni), sicché non si contano le “incompiute”, iniziate solo per attingere ai fondi e poi lasciate a metà, e la svendita al ribasso del patrimonio pubblico a privati interessati senza le necessarie avvertenze, oppure – come denunciano diverse sezioni regionali della Corte dei Conti – la prassi corrente per cui, da parte pubblica, si sceglie spesso di soccombere nei giudizi promossi da terzi, anche “quando le prime fasi di giudizio hanno dato piena ragione all’amministrazione” (la citazione è da una recente denuncia del viceprocuratore della Corte dell’Aquila).
Il resto (a cominciare dalle feste del Lazio) è solo la conseguenza: i costi senza controllo delle istituzioni, l’artificiosa moltiplicazione delle strutture a scopo di distribuire danaro, l’arricchimento di una classe politica avida e senza scrupoli. Del resto non è diverso nel sistema paese: l’Italia, non dimentichiamolo, secondo il Corruption perception index (la misurazione internazionale più autorevole) è sessantanovesima nel 2011 nella classifica dei paesi più corrotti del mondo – la Germania è quindicesima, il Belgio diciannovesimo, la Francia venticinquesima, la Spagna trentunesima –.
Un quadro desolante. Al quale però si può e si deve porre rimedio. Basterebbe applicare la ricetta che il disegno di legge del governo appena licenziato alla Camera e poi bloccato dal Pdl al Senato introduce con determinazione: quella della prevenzione. E la prevenzione consta di tre capitoli essenziali, direi decisivi, e di una indicazione finale. Primo: ripristinare in tutte le amministrazioni, anche quelle periferiche, i controlli esterni. Ma non quelli formalistici, che verificano solo il rispetto astratto della norma, quanto piuttosto quelli economici e di gestione (il che implica, ad esempio, avere organi diversi dalla Corte dei Conti, formata in maggioranza da giuristi). Secondo: ripristinare i corpi ispettivi, sistematicamente smantellati nei decenni scorsi. Terzo: dotare le amministrazioni, al centro come alla periferia, di adeguati apparati tecnici, in grado se non di progettare le opere almeno di seguirne l’esecuzione, competenti nei singoli campi dell’attività pubblica, capaci di fronteggiare e arginare la oggi preponderante expertise dei contraenti privati.
Infine la raccomandazione: curare di più l’etica pubblica, adottare e far valere codici etici rigorosi, introdurre criteri trasparenti e rigidi nella selezione e formazione del personale. E invitare i cittadini a scrutare dentro l’amministrazione e a denunciarne le magagne. L’apparato pubblico – si diceva un tempo – dev’essere una casa di vetro.
* Professore di Storia delle istituzioni politiche e Storia dell'amministrazione pubblica alla Sapienza di Roma. Deputato Pd.