PHOTO
Hera è una delle più importanti multiutility italiane, in quanto gestisce luce, acqua, gas e rifiuti per oltre 250 comuni situati in Emilia Romagna, Marche, Veneto e Venezia-Giulia. E' nata nel 2002 dall'aggregazione di 11 aziende emiliano-romagnole di servizi pubblici locali ed è poi continuamente cresciuta per dimensioni ed estensione territoriale grazie ad una serie continua di aggregazioni, acquisizioni ed incorporazioni di società operanti in territori contigui, l'ultima delle quali, nel 2013, ha riguardato AcegasAps S.p.A. (multiutility attiva nelle province di Gorizia, Padova, Trieste e Venezia).
Nonostante l'espansione e gli importanti obiettivi economici raggiunti, da tempo sono evidenti alcune criticità importanti negli assetti gestionali del gruppo, che rendono difficoltosa la ricerca di un soddisfacente equilibrio tra i diversi portatori di interessi rilevanti in gioco: cittadini/utenti, amministrazioni locali, territori, mercati finanziari, risparmi privati nazionali e internazionali, lavoratori e sindacati.
Nel luglio scorso è stato sottoscritto un nuovo importante protocollo relativo alle relazioni industriali di gruppo. A Cesare Melloni, che ha seguito questa trattativa per la Cgil Emilia Romagna, chiediamo di illustrarci i punti salienti dell'accordo.
Quali sono i punti di novità più significativi contenuti in questo protocollo?
Il nuovo protocollo doveva fare i conti con una novità rilevante, intervenuta a febbraio 2013, cioè l’allargamento dell’azienda con l'incorporazione di AcegasApsAmga. E' bene ricordare infatti che Hera ha scelto di espandersi gradualmente grazie all’acquisizione di imprese analoghe per struttura presenti in territori contigui, come Marche e Veneto. Si rendeva dunque necessario adeguare anche il sistema delle relazioni sindacali, perché nel momento in cui si costituisce un’azienda pluriregionale, bisogna incorporare realtà che hanno storie e qualità delle relazioni differenti. Il sindacato, nel momento in cui ha di fronte un interlocutore di livello nazionale, con una volontà di considerare il proprio sviluppo nel futuro secondo moduli omogenei ed armonizzati, non può presentarsi frammentato, oltre che in due grandi categorie, in realtà territoriali con storie diverse e incapaci di dialogare tra loro.
Perché passare da due livelli di confronto sindacale, holding e struttura operativa, com'era prima, a tre livelli, introducendo anche il livello di filiera o “unità di business”?
La cosa importante a mio avviso è che non solo si definiscono 3 livelli, di gruppo, di filiera e territoriale, ma si definiscono nel dettaglio le materie che ogni livello è chiamato ad affrontare e si definiscono i soggetti che per ogni livello sono deputati al confronto. A livello di gruppo è previsto il confronto, l'esame congiunto, l’informazione sulle linee strategiche; a livello di filiera devono essere affrontate le ricadute delle linee strategiche sotto il profilo del modello organizzativo; a livello territoriale le ricadute organizzative e sulle condizioni di lavoro.
L’accordo chiama poi in causa un punto che riguarda la responsabilità del sindacato e che non è allo stato delle cose ancora disponibile. Uno dei soggetti più importanti dal punto di vista sindacale del confronto è la rappresentanza sindacale di gruppo, che oggi non c’è, ed è il coordinamento nazionale delle Rsu, che viene riconosciuto a pieno titolo come il soggetto che può partecipare sia all’esame congiunto, sia all’informazione, sia alla contrattazione laddove questa si possa concretamente svolgere.
Il fatto che il coordinamento delle Rsu debba essere costituito entro il 31 dicembre di quest’anno chiama in causa il rapporto fra questo tipo di obiettivo e l’applicazione del testo unico confederale sottoscritto da Confservizi a cui aderisce Hera. Allo stato delle cose questo testo non viene ancora applicato appunto perché esistono differenze rilevanti tra la parte sindacale che fa riferimento alla funzione pubblica e la parte che si occupa di energia.
Il tema del coordinamento delle Rsu chiama in causa le categorie storiche che sono presenti all’interno della multiutility, ma chiama in causa anche i lavoratori degli appalti, che non necessariamente si riferiscono alle categorie storiche ma fanno capo anche ad altre categorie. Quindi allo stato delle cose questo protocollo contiene implicitamente una domanda che il sindacato deve fare a se stesso, e cioè come adeguare la propria rappresentanza al livello nuovo col quale si pone l’azienda.
Anche prima dell’aggregazione con le nuove realtà territoriali che operano in Veneto, Friuli e Marche uno dei problemi delle relazioni sindacali di Hera era quello di un eccessivo centralismo. Non c’ è il pericolo, cercando una maggiore omogeneizzazione, di determinare anche una maggiore centralizzazione, a questo punto non più solo regionale ma ad un livello nazionale?
Il rischio c’è, nella misura in cui non si metta in rilievo com'è necessario, da parte del sindacato, la caratteristica del prodotto/servizio di un’azienda come Hera, un prodotto/servizio che rientra nella categoria dei servizi pubblici locali. Il rischio di centralizzazione, e di corporativizzazione dei rapporti sindacali può essere evitato, se il sindacato propone, ai diversi livelli nei quali si articola il sistema di relazioni sindacali, un tipo di confronto concentrato sulla mission di questa impresa, cioè su cosa si produce, come si produce e per chi si produce.
Parliamo di un’azienda che si occupa di servizi energetico-ambientali e, proprio per il tipo di azienda che abbiamo davanti, è necessario evitare che il suo assetto proprietario segua la deriva della finanziarizzazione dei propri assetti, sia industriali che proprietari.
Il rischio della finanziarizzazione è molto presente, perché parliamo di imprese energetico-ambientali che dispongono di una certezza di introiti derivanti dal meccanismo di finanziamento dei loro servizi, ma che al tempo stesso erogano un servizio locale, territoriale. Da quando è nata l’azienda siamo in campo per evidenziare i rischi di finanziarizzazione , ma anche di deterritorializzazione insiti nei processi di aggregazione.
Proprio nella struttura del sistema delle relazioni sindacali, attraverso l’ individuazione delle materie che i tre livelli devono affrontare, devono essere contenuti anche gli anticorpi al processo di possibile centralizzazione. Quando per esempio si discute dei piani industriali, credo che debba essere messa in campo non solo un’iniziativa delle categorie, che debbono potersi confrontare col piano industriale, ma anche delle Confederazioni, che devono proporre una visione di tipo strategico sul ruolo che le imprese possono giocare rispetto alla qualità dello sviluppo del nostro Paese.
Dentro l’accordo c’è anche un rafforzamento del livello territoriale del confronto. Da una parte perché è necessario applicare l’accordo sulla rappresentanza e dall’altra perché, essendoci delle realtà territoriali anche fuori dalla regione emiliano-romagnola, è chiaro che non poteva essere saltato questo livello di confronto. Nell’esperienza passata, anche prima del superamento delle società operative territoriali, questo era diventato un livello pressoché inesistente. Riaffermare invece che, a livello territoriale, esiste una Rsu che prima non c’era, e che questa, assieme alle segreterie territoriali di categoria, ha delle competenze, un ruolo nel sistema di contrattazione sindacale, certo non è una garanzia assoluta che si eviti il centralismo, però può aiutare in questo senso.
C’è però un altro rischio legato al secondo livello. Perché uno dei problemi che abbiamo con questa società è il fatto che tende a superare la struttura della multiutility, e quindi a caratterizzarsi sempre di più verticalmente per Business Unit. Stabilire che quello diventa un livello - inevitabilmente nazionale - di confronto specifico, può essere da una parte il riconoscimento di questo percorso in atto, ma dall’altra può anche essere un ulteriore incentivo a procedere ulteriormente in questa direzione.
Effettivamente ho cercato sinora di mettere in rilievo le potenzialità positive del protocollo, ma non c’è dubbio che esso non costituisca una risposta di per sé ai problemi che sono davanti al futuro di quest’azienda. Anche se mette a disposizione spazi utili a contenere, evitare o minimizzare i rischi che ci sono dentro il processo di crescita dell’azienda.
C’è indubbiamente una tendenza da parte sia del management, sia dei proprietari pubblici a considerare inevitabile che le imprese di servizi pubblici locali diventino grandi soggetti nazionali non tanto diversi da Eni ed Enel, le quali hanno conosciuto nel corso del tempo uno sviluppo che le colloca allo stesso livello dei grandi soggetti multinazionali che operano nei loro ambiti operativi di competenza. I quali però incontrano esattamente quei problemi che noi prima abbiamo messo a fuoco: finanziarizzazione, che non è un male assoluto ma lo diventa nella misura in cui da strumento per lo sviluppo si trasforma in vincolo, con ricadute negative sulla parte industriale; e deterritorializzazione , i cui casi più clamorosi riguardano il fatto che quando si verificano eventi catastrofici, queste imprese sono prive di qualsiasi riferimento territoriale, quindi rispondono in ritardo e spesso molto male.
Bisogna pensare a un’altra forma d’impresa, che in qualche modo abbia una sua singolarità, rispetto alle imprese sia private che pubbliche che operano nel campo nazionale e internazionale. Dunque bisogna ricercare non l’omogeneizzazione a quei modelli, ma una forma d’impresa capace di coniugare sviluppo industriale, innovazione tecnologica, ma anche forte legame col territorio. Perché, ribadisco, chi eroga servizi pubblici locali non può concepire il territorio solo come destinatario finale di scelte che vengono prese altrove, ma deve trovare nel territorio un fattore propulsivo da cui alla fine prendono forma le scelte.
Questo richiede il fatto che anche il sindacato faccia un salto di tipo culturale, per dare concretezza a quella che potremmo chiamare una conversione ecologica del modello di sviluppo. Non si può essere autonomi dall’impresa se non si ha una propria idea di sviluppo, altrimenti si ha una logica di puro adattamento e quindi i rischi di centralizzazione attraverso la societarizzazione sono rischi che hanno molta probabilità di concretizzarsi.
Sembra un obiettivo già ambizioso quello previsto nel protocollo di indire elezioni delle Rsu che in realtà fanno rifermento a dei contratti nazionali diversi tra di loro, ma poi abbiamo il tema di tutti quelli che stanno nelle aziende appaltatrici, e questo è un altro punto importante. E' previsto, tra l'altro, che questo sia il prossimo oggetto di confronto e di un possibile accordo.
Questo è un punto chiave dal punto di vista sindacale perché lo sviluppo di quest’impresa ha dato luogo a una crescita a tal punto significativa del ciclo degli appalti e dei subappalti da eguagliare in termini di quantità d’occupazione quella interna ai cicli dell’impresa. A carte date la prospettiva è di un ulteriore espansione della parte in appalto e il problema che io vedo è che certamente il tema degli appalti sarà al centro del confronto nelle prossime settimane, anche in vista delle gare che sono previste e che impegneranno l’azienda sul fronte sia del gas, che dei rifiuti che dell’acqua. Oggi abbiamo una segmentazione della forza lavoro che ormai è arrivata a incorporare anche il lavoro povero dentro il proprio ciclo attivo.
Gli appalti non sono un male in sé, ma occorre riaffermare in tutte le sedi la responsabilità in solido dell’impresa madre, al fine di costruire percorsi di convergenza che non consentano una discrezionalità così ampia come quella di cui l’azienda ha potuto godere in questi anni e viceversa permetta una unificazione anche contrattuale delle condizioni di lavoro.
Perché regolazioni diverse tra loro chiamano in causa rappresentanze diverse tra loro e così è l’azienda a determinare la qualità delle relazioni sindacali esattamente perché si pone come arbitro delle contraddizioni che sono in campo alla rappresentanza sindacale.
Se il sindacato vuole interloquire con la strategia di questa impresa e con le sue ricadute sociali e organizzative deve trovare la strada per unificare i contratti e la sua rappresentanza. E' proprio lo sviluppo dell’impresa su più livelli territoriali ma anche verticali (societarizzazione) che rischia di spiazzare completamente l’iniziativa sindacale se questa non trova la forza per unificarsi sia dal punto di vista contrattuale che, soprattutto, dal punto di vista della rappresentanza dell’organizzazione.
Questo non riguarda solo le categorie storiche, ma bisogna avere l’ambizione di includere in questo processo di unificazione anche i lavoratori della filiera degli appalti. Questo comporta una novità assoluta, non solo per la storia dell’impresa, ma in generale per la storia contrattuale del nostro Paese, perché davvero potrebbe prendere corpo la possibilità che convivano, all’interno della stessa filiera, diverse realtà di impresa e di lavoro che però trovano una forma di rappresentazione unificata.
Hera potrebbe cioè essere il banco di prova per tradurre concretamente la volontà di rendere inclusiva la contrattazione in un processo sociale effettivo e reale, graduale finché si vuole, ma la cui direzione viene chiaramente indicata e segnata.
Sarebbe interessante da questo punto di vista se, nel momento in cui si tratta di discutere il protocollo sul tema degli appalti si riuscisse ad introdurre almeno uno spunto che riguardi il riconoscimento delle organizzazioni sindacali e delle Rsu che rappresentano i lavoratori delle aziende in appalto.
Sono d’accordo, credo che il prossimo confronto sul tema degli appalti debba includere esattamente quest’argomento. Non è più ammissibile che determinate realtà, che operano comunque nei processi lavorativi di Hera, non vengano riconosciute come soggetti che possono interloquire con l'azienda.
Nel protocollo vengono indicate due livelli in parte nuovi del confronto, che possono essere utilizzati a questo scopo: uno è il comitato relazioni gruppo Hera, che può diventare il banco di prova di un possibile allargamento della rappresentanza a chi finora non è stato incluso, l'altro è l’Osservatorio Hera, che è classicamente quella che in altri tempi veniva chiamato commissione bilaterale tecnica. Penso che si dovrebbe assumere queste due nuove strutture come un campo di avvio di una ricerca e sperimentazione che guardi all’inclusione piena dell’insieme del lavoro in Hera dentro il sistema delle relazioni sindacali.
Questo comitato relazioni gruppo Hera ha però una funzione consultiva, informativa, come una commissione paritetica, senza il ruolo negoziale di cui è invece titolare il secondo livello, quello delle unità di Business ...
Sì, però il passaggio preliminare è il riconoscimento. Se nel momento in cui si discute della condizione degli appalti, per esempio, anche le rappresentanze dei lavoratori delle ditte appaltatrici vengono riconosciute come interlocutori, perché non possono esserlo anche in altri tavoli? E poi: come devono essere composti i coordinamenti delle Rsu? Qui il protocollo non risolve una domanda a cui il sindacato deve dare una risposta. Io penso che dal nazionale fino al territoriale la rappresentanza sindacale deve essere inclusiva, perché se ci si ferma alla sommatoria delle due categorie che hanno firmato questo protocollo, ci si priva di una capacità di pressione, di una forza contrattuale che viceversa si potrebbe esercitare se fossero incluse anche le altre rappresentanze.
Ce la faranno le categorie ad eleggere le Rsu entro la fine dell’anno ?
Questo secondo me è un problema che ricade interamente sotto la categoria della volontà politica. A questo punto bisogna capire se lo vogliamo o non lo vogliamo fare, visto che le imprese non pongono ostacoli alla possibilità di una possibile elezione della rappresentanza sindacale in base al testo unico. Se non si vuole fare si consegna oggettivamente all’azienda il dominio delle relazioni sindacali, perché, anche avendo a disposizione uno strumento che potrebbe riequilibrare la forza dell’azienda con quello della rappresentanza, non viene usato.
Questo dovremmo dirlo con molta più forza, perché non c’è dubbio che l’azienda si avvale di questa frammentazione sindacale, di categoria e territoriale, oltre che di sigle sindacali, unicamente per continuare al di là degli accordi che essa stessa sottoscrive, a gestire l’azienda sostanzialmente senza nessun contrappeso sindacale, salvo quelli che vengono regolati dagli integrativi aziendali che si sono succeduti nel tempo, che però non sono mai stati nelle condizioni effettive di incidere sulle grandi scelte strategiche dell’impresa.
Qui c’è un tema anche confederale, perché spetta alla confederazione il compito di coordinare le diverse categorie. Ormai il tempo stringe: mancano solo un paio di mesi.
Per il tipo di prodotto/servizio di quest’impresa, la confederazione ha una responsabilità, che non riguarda solo il suo compito di coordinamento dell’attività sindacale delle categorie, ma riguarda anche esattamente il fatto che queste imprese si occupano di funzioni che la confederazione cerca di presidiare nelle sue politiche generali, tariffarie, di inclusione, ambientali. Qui la confederazione ha un ruolo ulteriore rispetto a quello derivante anche dalla sua natura di soggetto contrattuale: quello di concorrere a definire le scelte strategiche di imprese che hanno un ruolo sociale così importante.