Si potrebbe affermare che il desiderio di globalizzazione sia insito nell’essere umano, sin dai micenei: conoscere ed allargare gli orizzonti per ridurre le insicurezze, rendere più facile la comunicazione, sentirsi sempre a casa in ogni parte del mondo. Sotto un profilo superficiale ed ingenuo, quell’esigenza di protezione che può trasmettere una minuta comunità di periferia in cui tutti si conoscono e dove rispetto e dignità sono ancora valori.

Ma ora che il fenomeno non è più solo concetto la sua percezione è, nella media, lontana dall’essere positiva; troppe le conseguenze con le quali la gente comune fa i conti non essendo stata in grado di prevederle. E diametralmente contraria è la sensazione ricevuta. La massificazione e la standardizzazione di economie e culture vengono viste con un occhio meno astratto, in cui al fianco del miglioramento economico di limitate aree e classi coesistono gli aspetti negativi dell’inquinamento, della sovrapopolazione, dell’esaurimento repentino delle risorse naturali.

Un tendenziale senso claustrofobico pervade gli individui di questa società. A dispetto di quanto si potesse supporre, la sensazione prevalente, causata dalla globalizzazione, è di una maggior consapevolezza del limite, nelle risorse, nella protezione, nella privacy, nella “provvidenza”. Il nuovo fenomeno ha rimpicciolito, anziché amplificato, il mondo, attraverso le tecnologie, che hanno permesso alla comunicazione, all’informazione e ai trasporti una velocità a cui organicamente l’Uomo non è stato preparato, discriminante fondamentale con la mondializzazione di Colombo e Magellano: quel desiderio di conoscenza aveva ingrandito il mondo, il suo eccesso lo ha rimpicciolito.

E chi è stato in grado di approfittarne prima di tutti è il potere finanziario che, diventando extraterritoriale, ha potuto condizionare quello politico, nell’ufficialità ancora limitato al territorio, corroborando le disuguaglianze fino a livello locale, sia per una inevitabile e generalizzata politica economica a favore delle privatizzazioni, sia per la limitazione delle politiche fiscali nazionali che hanno contribuito alla compressione dei “diritti sociali”.

Regresso dell’economia pubblica, precarizzazione e declino della politica diventano il prevedibile humus di una generazione che si trova a dover lottare con uno spaesamento deleterio che ha messo radici profonde anche all’interno del singolo, soprattutto quando può confidare solo nell’aiuto dello Stato. Il tanto anelato abbattimento del muro di Berlino che ha accelerato i processi della globalizzazione e del libero mercato sta portando, ora, Paesi e cittadini, al contrario delle intenzioni, a chiudersi a riccio rispolverando i fantasmi dei totalitarismi: quello economico (localismo) e quello religioso dell’Islam; è il libero mercato, infatti, ad aver bisogno di democrazia, non il contrario!

Ora è vitale che alla globalizzazione dell’economia segua urgentemente quella della democrazia, che non è così indispensabile ai centri di potere. Una rivoluzione dal basso che deve emergere con la convinzione che l’idea di Stato-azienda permeato sul principio della competitività e del saldo di bilancio commerciale sia meno importante della coesione sociale in cui istruzione, salute, lavoro, sicurezza, ambiente giocano un ruolo primario per il benessere di tutti.

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