PHOTO
Ripubblichiamo un'intervista a Baldina Di Vittorio, recentemente scomparsa. Il testo è un estratto da Di Vittorio a memoria (2007), di Angelo Ferracuti e Mario Dondero, un viaggio nella vicenda umana e politica di Giuseppe Di Vittorio nel cinquantesimo della scomparsa – Lecco 3 novembre ’57 –, che lo scrittore marchigiano effettuò per Rassegna lungo due diversi percorsi: il ricordo di chi gli era stato più vicino, l’aveva conosciuto e accompagnato nella lotta politico-sindacale; e i luoghi, in terra di Puglia, che prima del fascismo lo avevano visto diventare leader del movimento bracciantile, così come oggi si presentano e sono vissuti.
Siamo a metà giugno, fa già un caldo che prende il corpo e le stoffe degli abiti, e io continuo a trascinarmi con le mie borse ingombranti, ancora a Roma dove debbo incontrare Baldina Di Vittorio. L’uomo del taxi, un tipo parecchio distratto, sbaglia strada, mi lascia da un’altra parte, però dagli e dagli, chiedendo e cercando di orizzontarmi arrivo a destinazione.
La voce al citofono mi invita a salire, “secondo piano, c’è l’ascensore” m’avverte. Quando la vedo che sbuca sulla soglia sono intimidito perché sto cercando di raccontare la storia di suo padre, e so cosa può significare per una persona custodire il passato, giustamente sorvegliarlo come una sentinella attenta della Storia.
Comunque gli occhi di Baldina non li dimenticherò: azzurri e acquosi, liquidi come un mare calmo, limpidissimi e profondi come quelli di un gatto certosino, occhi che ho guardato un intero pomeriggio mentre lei parlava affettuosa e ricordava nella casa dove abita, che sta nel quartiere della Balduina a Roma, alcuni passaggi importanti della sua vita. Non dimenticherò i suoi capelli argentati, le mani smagrite segnate dalle vene, la sua esile compostezza, il garbo e la forte somiglianza col padre leggendario.
Guardare negli occhi con intensità una persona significa stabilire intenzionalmente un rapporto profondo, un contatto vero. Come ha scritto Ryszard Kapuscinski, uno che se ne intendeva di queste cose: “Non sappiamo mai chi stiamo per incontrare, anche se si tratta di una persona di cui conosciamo da tempo il nome e l’aspetto. Figuriamoci poi se si tratta di qualcuno che vediamo per la prima volta. Ogni incontro con l’altro è dunque un indovinello, qualcosa di ignoto se non addirittura di segreto”.
Anche la sua casa non la dimenticherò, come non potrò scordare il ritratto di Rosa Luxemburg opera di Renato Guttuso appeso nella parete di fronte al divano damascato dove ci siamo seduti, quel dipinto con una rosa sul lato destro spinosa e gli occhi sanguinanti di lei, l’ottimo tè freddo che mi ha offerto, nonostante i dolori alla schiena la tarmassero, trafficando tra la cucina e questo tinello accogliente, pieno di quadri e di libri canonici, memoria intera del secolo breve. Non dimenticherò il tavolo con le fotografie, quella di Berti e Baldina sulle Dolomiti, il ritratto di Vindice, gli stessi capelli nerissimi del padre, e accanto quella ovale a colori di Di Vittorio con sulle spalle la nipote Silvia, nata con un nome leopardiano per un bel regalo del destino proprio un primo di maggio. (…)
“Era il periodo in cui c’erano delle lotte continue, e ci fu una iniziativa a Cerignola del Circolo socialista che mi ha sempre affascinato quando mia madre raccontava questa storia” dice sorridente, dolcemente divertita Baldina. Perché lei molti racconti li ha fatti propri come una seconda memoria, aggregandoli a quelli vissuti in una specie di complesso ritratto famigliare. Era un periodo molto effervescente, arrivavano i giornali rivoluzionari dal nord e questi braccianti giovanissimi, poco più che adolescenti, stavano cercando una sede per fare lavoro politico. Cercavano di abbonarsi a delle riviste, organizzavano momenti di incontro, di discussione.
“Era una Cerignola molto arretrata, un borgo di campagna, dove la maggioranza della popolazione era ignorante, e la prima iniziativa che intrapresero fu la lotta all’analfabetismo, e andarono sotto le finestre del sindaco per chiedere di aprire una scuola serale”.
Baldina mi rimprovera per il fatto di aver messo in moto il mio registratore digitale mentre parla, ma le prometto che è un promemoria, una specie di taccuino elettronico, dopo distruggerò tutte le sue parole, anche se mentre lei parla mi sembra un po’ un peccato farlo per davvero (invece la cosa poi accadrà accidentalmente lasciandomi nel panico per un lungo fine settimana).
“E il sindaco trasecolò... che cos’è una scuola serale?... Non lo sapeva. E allora gli dissero che sarebbe stata una scuola per insegnare a leggere e a scrivere ai braccianti”. Di Vittorio aveva appena quindici anni a quei tempi, e sua madre tredici. Incredibile!
“Mamma aderì al circolo, che in poco tempo riuscì ad avere quattrocento iscritti, ed era una delle pochissime ragazze. Tutti questi giovani che imparavano a leggere e a scrivere, le cose che mio padre ci raccontava, la scoperta del vocabolario”.
Una storia che ha sempre incuriosito Baldina quando gliela raccontavano era che i giovani di quel circolo andarono dal sindaco per protestare contro le persecuzioni che facevano gli zaristi in Russia. “Il primo cittadino non sapeva niente di cosa era lo zarismo, e rispondeva: ‘E io che ci posso fare?’ Questo per dire anche la sensibilità internazionalista che li animava”.
Vittorio Foa ebbe dal padre un ricordo di prima mano: “Era stato sindacalista anarchico con De Ambris e già prima del fascismo aveva conquistato una grande popolarità in tutto il Mezzogiorno. Fu lui a descrivermi l’aspirazione dei giovani lavoratori a uscire dagli aspetti più visibili dell’inferiorità sociale, come il modo di vestire. Aveva diciassette anni ed era segretario della lega dei giovani socialisti di Cerignola. Un giorno li riunì e disse loro: Perché mai dobbiamo portare il tabarro che le figlie degli impiegati non vogliono venire a spasso con noi? Vestiamoci dunque anche noi col cappotto come i borghesi”. Ride di cuore Baldina, si diverte mentre racconta e io continuo a guardare i suoi occhi, ne avverto ogni volta il senso di stupore, di commozione o di tristezza, a seconda delle cose che le montano in testa nell’aggregarsi dei ricordi. (…)
“Sono stati fidanzati undici anni, e poi si sono sposati con una grande festa popolare, con tutto il paese, la banda. Durante il fidanzamento, nonostante fosse un bracciante, mio padre portava mia madre al teatro Mercadante, dove andavano solo i signori, e già questo la dice lunga su come la pensava. Che tipo era, insomma”.
I primi ricordi di bambina, quando andava a trovare suo padre al carcere di Regina Coeli, sono struggenti. “C’erano anche altre donne dietro le grate, però l’unica famiglia con bambini era la nostra” dice ridendo. Immagino Carolina, questa donna preoccupata ma forte che partiva da un quartiere popolare di Roma e doveva prendere due, anche tre tram per raggiungere il carcere, stringendo i suoi bambini, e poi fare estenuanti attese per poter vedere suo marito solo pochi minuti. “Ci faceva comprare i maritozzi, però diceva voi fate finta di mangiarli un po’ e li lasciamo a papà. E noi facevamo così. Lui scherzava, sdrammatizzava sempre, non voleva farci capire che stava in prigione, e quando un giorno arrivò il secondino per avvertirlo che il tempo della visita era scaduto, Vindice gli disse: ‘Papà, tu sei più forte di lui, perché non lo stendi? Perché non gli dai una bella lezione?’” (...)
A Roma c’era stata una accelerazione nella loro esistenza, niente a che fare con la vita di Puglia, dove anche nei momenti più difficili dell’offensiva fascista, malgrado tutto “c’era sempre una atmosfera molto cordiale, molto affettuosa, calorosa, piena di speranze”, racconta. “Casa nostra, quella dei nonni, voglio dire, era sempre piena di gente, e tutti stavano intorno a papà, lo proteggevano. E noi bambini ci sentivamo elettrizzati”. Di quella casa del tempo delle fragole ricorda tutto, la scala e il soppalco con il pagliericcio, il posto dove andavano a prendere l’acqua, quando tornava suo zio che era stato a caccia di tordi, il giro serale di lei e Vindice sopra l’asinello. Poi quando suo padre fu condannato in contumacia dal tribunale speciale fascista, il partito decise che era troppo conosciuto per restare in Italia e con altri compagni emigrò a Parigi. La famiglia lo seguì poco dopo.
“Il primo impatto con la città fu indimenticabile: papà portò tutta la famiglia a una grandiosa manifestazione di solidarietà per Sacco e Vanzetti. Ho ancora nelle orecchie lo slogan ripetuto con rabbia: Libérez Saccò-Vanzettì! Libérez Saccò-Vanzettì!...” Comincia il periodo difficile della vita illegale, con falsi nomi, falsi documenti, vivono in “modestissimi alberghetti o in minuscoli meublés (piccoli e tristi appartamenti mobiliati)” che cambiano di continuo. “Vindice ed io ci dovemmo abituare rapidamente a non avere amici della nostra età, a non poter invitare a casa nostra i compagni, a cambiare spesso scuola”. Ma il ricordo del padre è quello di un uomo sempre molto ottimista. “Anche nelle situazioni più critiche, lui vedeva sempre la via di uscita, la soluzione in ogni cosa. Quando lo fermarono a Roma, per esempio, lui ebbe questa improvvisa illuminazione: cominciò a parlare con i poliziotti e disse: voi siete italiani, siamo sotto l’occupazione tedesca, e io sono un antifascista, sono un sindacalista che ha lottato per i lavoratori, se mi arrestate non so che fine posso fare, magari mi passano per le armi... e così lo lasciarono andare”.
Poi Baldina mi racconta un’altra bella storia. Quando Di Vittorio partì per la guerra di Spagna, la famiglia andò a Montéjoun da conoscenti di un deputato francese suo amico molto noto, Renaud Jean, il quale disse a suo padre: “Tu non li puoi lasciare a Parigi, bisogna trovare una soluzione”. Allora andarono con Di Vittorio in questo paese sui Pirenei, e lui rimase qualche giorno con loro prima di partire. Ma una mattina, mesi dopo, sentirono bussare alla porta, andarono ad aprire, e dietro l’uscio si trovarono proprio lui che era arrivato per salutarli. “Fu una grande sorpresa, una grande gioia” dice ancora commossa (…).