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I giovani sono il futuro dell’Italia. Un dato incontestabile, se non altro perché prima o poi dovranno rimpiazzare le generazioni anziane. Ma, causa la riforma delle pensioni e l’allungamento delle aspettative di vita, è molto più probabile che ciò avvenga “poi” e non “prima”. D’altronde, il rapporto tra la popolazione di 65 anni e oltre e quella con meno di 15 anni, al 1° gennaio 2017, è pari al 165,3 per cento, a conferma che l’Italia è uno dei Paesi con la migliore longevità in Europa 1. Un ruolo importante nel ricambio generazionale lo giocheranno gli immigrati: la popolazione straniera in Italia è di oltre 5 milioni di persone, pari all’8,3 per cento dei residenti, e il saldo migratorio è attualmente di 133 mila unità ogni anno, destinato a salire a 150 mila. L’età media degli italiani è di 45 anni, quella degli immigrati di 34. Ciò contribuisce a spiegare perché se una nativa ha in media 1,27 figli, le straniere si attestano a oltre 1,90. È un bene: le nascite non sono sufficienti a compensare i decessi. Quindi l’affermazione iniziale dovrebbe essere corretta in “Il giovani immigrati sono il futuro dell’Italia”.
I giovani non vogliono lavorare, sono “bamboccioni”, sfaccendati, o “choosy”
Lo dicono spesso gli anziani, avendo ormai dimenticato i propri anni giovanili (mitizzati o denigrati a secondo della bisogna). Naturalmente, in alcuni casi può essere vero, ma per lo più l’impressione deriva dal fatto che è abbastanza normale che un giovane appena uscito dagli studi, specie se vive in famiglia (e quindi è protetto dal welfare di genitori e nonni), sia “selettivo” verso il lavoro, tenti di trovarne uno che rispecchia le sue competenze. D’altronde, perché studiare anni se poi con la laurea in mano ci si mette in fila per un lavoro da facchino al porto?
Ma quella della “selettività” è una fase che dura poco: l’Istat ci dice che in Italia il sottoutilizzo del capitale umano disponibile (cioè la mancata corrispondenza tra livello di istruzione raggiunto e lavoro svolto), fra i giovani è frequentissimo. Nel 2016, il 38,5% dei diplomati e laureati nella fascia 15-34 anni (circa 1,5 milioni) dichiara che per svolgere adeguatamente il proprio lavoro sarebbe sufficiente un livello di istruzione più basso rispetto a quello posseduto (valore che sale al 41,2% per i diplomati e scende al 32,4% per i laureati). Questo fenomeno è più grave per le donne, per chi ha un lavoro atipico o precario, per chi ha genitori con minore istruzione e per i giovani stranieri: questi ultimi sono sovra istruiti rispetto al lavoro che svolgono nel 69% dei casi, a dimostrazione che in Italia non esiste alcuna policy sull’immigrazione qualificata. Per le nostre autorità se arrivi su un gommone dalla Libia poco conta se sei un medico, un ingegnere o un fabbro, il tuo futuro, salvo fortuite eccezioni, sarà raccogliere i pomodori.
Che i giovani non siano sfaccendati lo dimostra anche il fatto che ricercano esperienze lavorative sin dagli anni dello studio: il 40% circa dei diplomati e il 60% dei laureati hanno svolto almeno un’esperienza di lavoro durante l’ultimo corso degli studi (ma se risiedi nel Mezzogiorno avrai la metà di occasioni di fare un’esperienza). Nella maggioranza dei casi (un milione e 667 mila giovani) si è trattato di esperienze di lavoro non retribuite (stage, tirocini e lavori di volontariato); in 928 mila hanno svolto invece solo lavori retribuiti, spesso lavoretti, 843 mila entrambe le tipologie. Molte esperienze di lavoro dei giovani fanno parte del corso di studio: il 25,8% dei diplomati e il 36,1% dei laureati hanno effettuato stage, tirocini o apprendistato all’interno del programma di istruzione.
I giovani hanno molte strade per cercare un impiego
Internet ha sicuramente espanso la possibilità di cercare lavoro per un giovane, specialmente se riesce a discriminare tra le offerte serie e quelle truffaldine. Ma, ciò nonostante, le vie per arrivare davanti a un responsabile aziendale che valuti il proprio curriculum non sembrano cambiate di molto negli anni. Quello che fa sentire di più la sua mancanza è, nonostante tutte le riforme tentate, un efficiente sistema pubblico per l’impiego: secondo l’Istat meno del 12% dei giovani riceve, nel corso di un anno, qualche forma di aiuto nella ricerca di lavoro da parte di una istituzione pubblica, come un Centro per l’impiego, un’Agenzia per il lavoro o un’istituzione educativa. Aiuti che peraltro non sempre sono stati utili: il massimo gradimento lo esprimono coloro – poco meno del 25% – che sono stati inseriti in un tirocinio, un lavoro o un’attività di servizio civile, mentre il 31% trova che recarsi presso una struttura pubblica non sia servito a nulla.
Peraltro il supporto pubblico è mancato proprio a chi ne avrebbe avuto più bisogno: giovani tra i 30 e i 34 anni (disoccupati di lunga durata), residenti al Sud, chi ha titoli di studio più bassi. In tali condizioni, non stupisce che 4 giovani su 10 abbiano trovato lavoro attraverso la segnalazione di parenti, amici o conoscenti. Funziona bene (20% delle assunzioni) anche cercare un contatto diretto con le imprese, mentre il 12% il lavoro se lo è creato da solo, iniziando un’attività in proprio (ma non è escluso che una quota di questi ricada nella categoria delle false partite Iva).
I giovani sono destinati a emigrare
Per fortuna non è così, per la gioia dei genitori italiani, notoriamente più protettivi di quelli dei Paesi del Nord Europa. Anzitutto va detto che, tra i giovani disoccupati, una quota molto elevata, ben il 39%, si dice pronto a trasferirsi per motivi di lavoro, in poco meno della metà dei casi rimanendo in Italia, e in un terzo verso mete fuori dall’Unione europea. La propensione a migrare per lavoro aumenta con il titolo di studio dei genitori – i due terzi dei laureati con genitori anch’essi laureati è pronto a trasferirsi per lavoro –, mentre è minima tra i giovanissimi e cresce sino al massimo tra i 25-29enni, poi dai 30 anni si riduce significativamente.
È chiaro che su tale propensione incide molto la durata della disoccupazione, ma anche le condizioni sociali e relazionali legate all’età. Per fortuna, come ben sappiamo, queste intenzioni vengono messe in pratica solo da una minoranza di giovani: nel 2016 gli italiani sopra i 24 anni emigrati all’estero sono stati 81 mila (nel 2007 furono appena 36 mila). Tra questi i laureati sono quasi 25 mila. Come si vede, un importantissimo spreco di risorse umane, che interessa il 10,8% dei disoccupati nella fascia di età 25-34 anni. Più che fasciarci la testa, quindi, faremmo meglio ad agire: invertire la tendenza è ancora possibile.
Per i giovani il lavoro precario è l’anticamera di quello stabile
Un tempo probabilmente era così, oggi non necessariamente. Come abbiamo visto, tirocini e lavoretti fanno già parte dell’esperienza scolastica e universitaria di molti giovani. Le cose si complicano al termine degli studi, quando l’offerta rimane in larga maggioranza di lavori a termine e part time. Se prendiamo gli occupati tra i 20 e i 24 anni, il 51% ha un rapporto di lavoro atipico e il 30% è a part time. Il lavoro a tempo indeterminato aumenta solo andando avanti con l’età: 53% a 29 anni, 64% a 34 anni. Una situazione contingente? Purtroppo no. Le aziende hanno imparato sin dagli anni settanta a utilizzare due forme di flessibilità: quella interna e quella esterna, cui corrispondono, secondo Ronald Dore, diversi obiettivi di efficienza dell’impresa, l’efficienza “produttiva” e quella “allocativa”.
La flessibilità interna riguarda la disponibilità dei lavoratori a riconoscersi pienamente negli scopi dell’impresa ed essere pronto a cambiare orari, lavoro, colleghi. In cambio, l’azienda assicura ai lavoratori che fanno parte del core group la sicurezza dell’impiego, l’apprendimento continuo, la rotazione dei compiti e la condivisione dei profitti tramite i premi aziendali. Ma l’impresa deve anche adattare la forza lavoro alle esigenze di produzione e di mercato. Ciò richiede una maggiore libertà di assumere e licenziare e pagare di meno i lavoratori, cosa che diviene possibile ricorrendo al lavoro a termine, ai contratti atipici, al lavoro in subappalto e all’esternalizzazione. La crisi del 2008, unitamente alla crescente robotizzazione delle imprese e alla nascita di sempre più estese piattaforme virtuali di lavoro ha esasperato la ricerca della massimizzazione dei profitti, ottenuti tramite l’innovazione applicata alla riduzione dei costi delle risorse umane.
È impossibile fare marcia indietro e improbabile riuscire a riprogettare il presente. Ormai tutti, dai governi – che finanziano le innovazioni industriali senza capirne in pieno le conseguenze – al privato cittadino – ormai dipendente dalle tecnologie – considerano ciò un gigantesco passo avanti, previo poi risentirsi dei lavori sempre più precari e malpagati offerti ai propri figli, che non fanno più intravedere un futuro stabile come lo conoscevamo un tempo. Prometeo, che aveva rubato il fuoco (cioè l’innovazione) agli Dei per darlo agli uomini, oggi scoprirebbe che lo stanno usando contro se stessi.
1 I dati utilizzati in questo articolo sono dell’Istat, in particolare: 1) Statistiche Focus, II trimestre 2016, “I giovani nel mercato del lavoro”, 27/10/2017; 2) “Migrazioni internazionali e interne della popolazione residente” – Anno 2016, 29/11/2017; 3) Banca dati Giovani.Stat, http://dati-giovani.istat.it/
Patrizio Di Nicola è professore di Sociologia dell’organizzazione e dei sistemi avanzati all’Università La Sapienza di Roma