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Nel paese dei giovani “senza”. Senza scuola, senza formazione, senza lavoro. È la fotografia impietosa scattata dall’ultimo Rapporto dell’Istituto Toniolo che conferma un dato drammatico. In Italia i Neet – i giovani, cioè, che sostanzialmente “non fanno nulla” – sono 2,2 milioni, ben il 24 per cento dei coetanei. Una percentuale che ancora una volta ci pone in coda a quasi tutti i paesi europei, visto che nel continente questo contingente è al 14 per cento, addirittura 10 punti sotto.
Tanto rumore per nulla: Garanzia Giovani, tirocini, alternanza scuola-lavoro, riforma dei servizi all’impiego – strumenti e misure sui quali negli ultimi anni si è posta una grande enfasi – non hanno dunque smosso neanche una virgola. “Siamo tra i paesi che meno valorizzano i propri giovani – commenta sconsolato Alessandro Rosina, sociologo e tra i massimi esperti del tema –. Perlopiù in Italia i giovani vengono utilizzati come manodopera da pagare il meno possibile, anziché come una risorsa che può diventare una leva per la competitività delle imprese e dell’intero sistema economico”. Rosina mette sotto accusa, in particolare, la transizione scuola-lavoro che è molto debole “già in partenza, ovvero nella scuola, da cui troppi giovani escono con fragilità e vulnerabilità rispetto a ciò che è veramente spendibile nel mondo del lavoro”. Se a questo aggiungiamo la pochezza delle nostre politiche attive del lavoro, per il sociologo il risultato è che “molti ragazzi finiscono per perdersi in questo percorso di transizione e non riescono poi a trovare una collocazione adeguata nel sistema produttivo”.
Garanzia Giovani: un’occasione mancata
Su questa misura europea erano state riposte parecchie speranze. Il programma prevede la presa in carico da parte dei servizi per l’impiego dei Neet tra i 15 e i 29 anni a cui vanno offerti, entro un lasso di tempo certo, percorsi personalizzati che prevedono, tra gli altri, tirocini, apprendistato, sostegno all’autoimprenditorialità, bonus occupazionali. Ma i dati non sono incoraggianti, sia dal punto di vista quantitativo (in concreto solo a mezzo milione di persone è stato offerto un percorso) sia dal punto di vista qualitativo: il 70 per cento delle risorse disponibili viene impiegato per finanziare tirocini in aziende (la misura largamente più gettonata), spesso di basso contenuto formativo, quando non si tratta di vera e propria sostituzione di manodopera.
Ma c’è un altro aspetto preoccupante: “Garanzia Giovani – attacca Rosina – non è riuscita a intercettare i più svantaggiati, quelli che ne avevano più bisogno. Occorre attivarsi da soli, registrarsi su un portale: tutte azioni che spesso compiono coloro che conoscono i propri bisogni, che hanno già una formazione e una consapevolezza maggiore, ma gli altri? Bisognava ‘scovarli’, intercettarli: ma questa prima, fondamentale fase è stata dimenticata. Il risultato è che si sono iscritti quasi solo i giovani con un più alto potenziale”. Che il problema sia spinoso lo conferma Alessandro Capezzuto, segretario di Nidil Salerno e membro del forum nazionale giovani, che raccoglie 80 associazioni: “I ragazzi sono stati abbandonati a loro stessi davanti a una piattaforma su internet, ma non dovrebbe essere così. La presa in carica implica una responsabilità da parte dello Stato. Presso i nostri sportelli arrivano centinaia di giovani che non hanno neanche una email o una connessione internet a casa, ma solo quella attraverso cellulare”.
Garanzia Giovani è stata un fallimento: finora ha intercettato solo chi ne aveva meno bisogno
Ma come arrivare a chi ha più bisogno? Anna Teselli, che si occupa di questi temi in Cgil, la vede così: “Bisogna dar vita a una rete territoriale, a regia pubblica, che coinvolga tutti i soggetti presenti che devono attivarsi sui diversi bisogni dei ragazzi, che non possono limitarsi a un tirocinio di sei mesi. Per esempio, coloro che hanno soltanto una licenza media vanno sostenuti perché ottengano una qualifica professionale o un diploma di scuola secondaria”. Garanzia Giovani non può limitarsi a offrire un’esperienza di lavoro ma, in dati contesti, deve promuovere “l’innalzamento dei livelli di scolarizzazione, in un paese che ha tra i più alti tassi in Europa di abbandono scolastico”. Non va dimenticato, infatti, che in Italia l’11,8 per cento delle ragazze lascia la scuola prima di finire la secondaria, contro il 9,5 delle coetanee europee; distacco che sale ancora tra i ragazzi: 18 contro 12,4 per cento.
Servizi all’impiego: il grande assente
Tra gli attori territoriali più importanti che dovrebbero governare la transizione scuola-lavoro ci sono naturalmente i centri per l’impiego. Anche in questo caso, negli anni, tanti buoni propositi ma pochi risultati: in Italia solo un disoccupato su tre contatta uno dei 556 centri per l’impiego, in Germania, Austria e Svezia sono oltre 7 su 10. Sfiducia? Scarsa efficienza? “Purtroppo, siamo quasi allo stesso punto da quando nel 1997 furono riformati i vecchi uffici di collocamento – argomenta Madia D’Onghia, che insegna diritto del lavoro all’università di Bari –. Salvo qualche eccezione al Nord, per il resto si registrano ovunque le stesse criticità. I centri per l’impiego non dovrebbero essere più luoghi in cui semplicemente si riempiono carte, ma realtà in cui un ragazzo può trovare un referente che lo accompagni nel processo d’inserimento. Ma questo raramente accade. Non solo: il centro doveva essere anche un punto di riferimento per le aziende. Ma nessun datore di lavoro lo fa, preferisce il passaparola”.
I motivi di questo mancato decollo a strumento attivo di politica del lavoro sono svariati. Il primo, ovviamente, è come al solito la scarsità delle risorse investite. Secondo dati Eurostat le politiche attive per il lavoro in Italia ammontano appena all’1,6 per cento del Pil; in Francia sono il 3,4, in Germania il 2,3 e in Olanda il 3,7. Poi c’è una questione di personale: il rapporto tra operatore e utenti presi in carico è tra i più bassi d’Europa e, su 9.000 addetti, ben 2.000 sono precari, con effetti paradossali. Lavoratori precari da anni che dovrebbero “indirizzare” altri lavoratori precari o disoccupati.
I centri per l'impiego soffrono per il mancato aggiornamento delle competenze del personale
“Pesa anche – osserva la studiosa – il mancato rinnovamento delle competenze del personale, che doveva essere formato a questi nuovi compiti, a cui si aggiunge il mancato turn-over dovuto al blocco delle assunzioni”. Ma non basta: a tutto questo si intreccia un vero e proprio caos normativo. Il Jobs Act ha riformato le politiche attive del lavoro dando ancor più peso al percorso individuale di orientamento dei giovani, ma il tutto, riprende D’Onghia, “era stato pensato nella logica di una riforma della Costituzione che poi non è passata. In materia di competenze rimane dunque il conflitto ex articolo 117 della Costituzione tra lo Stato e le Regioni. Se a questo aggiungiamo il depotenziamento delle Province, ci rendiamo conto della precarietà e della confusione in cui operano questi servizi che si vorrebbero riformati”.
Alternanza scuola-lavoro
Anche in questo caso di tratta di un’occasione mancata: la possibilità di svolgere per gli studenti delle scuole superiori parte dell’orario scolastico in un contesto lavorativo altamente formativo. Sappiamo come è andata nella realtà: in molti casi i ragazzi sono stati messi – in orario scolastico, non va mai dimenticato – in produzione, spesso in aziende che non brillano per innovazione. Il caso più clamoroso è quello di Mc Donald’s, ma sono state denunciate situazioni ancora più estreme, ad esempio la raccolta delle olive in campagna.
“La scuola non può diventare un’agenzia di collocamento, non può rappresentare una forma d’ingresso nel mondo del lavoro – attacca Andrea Torti, coordinatore dell’associazione studentesca Link –, per questo esistono altri strumenti, come l’apprendistato. Servono nuove metodologie didattiche che costruiscano un rapporto virtuoso tra mondo produttivo e mondo dell’istruzione”. L’addestramento che spesso si offre nei progetti è riferito a mansioni di bassissimo livello professionale e dunque anche poco spendibile in futuro. Insomma, il rischio è quello di produrre nello studente una doppia frustrazione: verso la scuola e verso il lavoro. “Nel mondo dell’industria 4.0 non abbiamo bisogno di imparare mansioni ripetitive e dequalificate – osserva Torti –, ma costruire percorsi didattici innovativi che guardino avanti”. Qualche caso virtuoso esiste, come quello della Lamborghini in cui sono stati coinvolti nella progettazione formativa anche Fiom e studenti. “I ragazzi – racconta il dirigente di Link – non sono in produzione. Si formano nei laboratori dove si sperimenta una didattica innovativa che fornisce strumenti a chi finisce il percorso di studi, e che utilizzerà a prescindere dall’azienda dove in futuro si troverà a lavorare”. È molto probabile che un ragazzo che viva un’esperienza simile difficilmente possa “diventare” in seguito un Neet.
La scuola non può essere un'agenzia di collocamento nel mondo del lavoro
Un altro aspetto negativo dell’alternanza così come viene praticata lo segnala ancora Rosina: “Il percorso dovrebbe essere virtuoso: si impara, ci si mette alla prova, si verificano le fragilità e magari si torna a imparare per fare ancora meglio. Non solo competenze tecniche ma anche e soprattutto i cosiddetti soft skills: essere intraprendenti, attivi, mettersi in gioco, saper lavorare con gli altri. Invece si è proceduto con molta improvvisazione e senza nessun piano di valutazione dell’impatto dei percorsi sui ragazzi”. È un punto cruciale, questo: “Prima che inizi il percorso bisognerebbe fare un bilancio di quello che lo studente sa fare e quali sono le sue competenze e fragilità e poi, a valle, misurare con strumenti adeguati se le competenze si sono rafforzate o meno”.
In questo modo, aggiunge il sociologo, si avrebbe “innanzitutto una mappatura delle competenze dei giovani italiani, si potrebbero individuare concretamente quali sono le esperienze effettivamente di valore che aiutano e che rafforzano i giovani stessi e, infine, migliorare la consapevolezza dei ragazzi rispetto all’utilità dell’esperienza fatta”. Oggi questo non accade: l’alternanza è spesso una finestra che si apre più per obbligo di legge (tale è diventata con la Buona Scuola) che per convinzione didattica e chi ne esce generalmente non ha acquisito maggior consapevolezza sul proprio futuro; anzi, spesso, un motivo di frustrazione in più: una delle condizioni che spiega, appunto, il fenomeno sempre in crescita dei Neet.