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L’ultimo (clamoroso) caso è quello di Antonio Cipriani, giornalista, responsabile di 15 testate free-press, costretto ad affrontare 34 processi con l’imputazione del reato di omesso controllo e, da ultimo, condannato – con sentenza definitiva – a 5 mesi di reclusione. Solo l’ultimo (incredibile) episodio di una lunga e copiosa serie che vede ogni giorno nel ruolo di protagonisti – ma, forse, sarebbe più opportuno definirli vittime – un numero elevato e difficilmente quantificabile di lavoratori dell’informazione, loro malgrado ostaggio delle non poche incongruenze presenti nelle leggi che regolano nel nostro paese la professione giornalistica.
Cipriani, e con lui i 26 giornalisti e i 3 direttori dell’Unità condannati a risarcire i danni in una serie di cause per diffamazione, hanno pagato il loro (salatissimo) conto con la giustizia in luogo di società fallite (E-Polis) o liquidate (la Nie, editrice dell’ormai defunto quotidiano fondato da Antonio Gramsci), in considerazione del fatto che in questo tipo di cause la responsabilità è ripartita tra impresa editoriale, giornalisti e direttore della testata.
Quelli di Cipriani, della direttrice Concita De Gregorio, che si è vista obbligata a pagare qualcosa come 150.000 euro di risarcimenti, o della sua collega Natalia Lombardo, a cui hanno addirittura pignorato l’appartamento, sono tuttavia casi limite, a cui si potrebbe far fronte, se ci fosse la volontà politica (in proposito, la Fnsi suggerisce da tempo una modifica alla normativa vigente), prevedendo un’assunzione di responsabilità da parte della vecchia proprietà e del nuovo editore finalizzata alla creazione di un fondo che copra le spese oggi, nei casi di fallimento, spettanti ai giornalisti.
Casi al limite, senza alcun dubbio gravissimi, ma non pienamente rappresentativi di una realtà diffusissima nel nostro paese, che interessa in gran maggioranza – soprattutto nelle regioni del Sud – piccole e piccolissime cooperative di giornalisti e micro aziende editoriali, sovente connesse a emittenti televisive o radiofoniche, assolutamente non in grado di resistere alle pressioni provenienti dal politico locale o dall’industriale di turno, soprattutto quando si sostanziano con una richiesta per danni pari a 50.000 o, in taluni casi, persino 100.000 euro.
Un contesto delicatissimo, in cui si registra la crescita esponenziale delle querele per diffamazione (130 nei primi 10 mesi del 2013, a fronte delle 84 relative all’anno precedente), agitate ad arte per condizionare l’operato di un giornalista, tanto più se impiegato in un media dalle prospettive non proprio floride, ancora peggio se free lance e non inserito, di conseguenza, in alcuna organizzazione editoriale, né grande, né media, né piccola.
Ma se in Italia è così agevole bloccare notizie scomode e inchieste sgradite, e guadagnarci per di più dei soldi, usando come pretesto la reputazione o la privacy, non sarà per caso che il diritto costituzionale alla libertà di informare e di essere informati non è davvero così effettivo ed esigibile? E come si spiega che, dopo 66 anni di norme punitive, risulta così difficile portare avanti una battaglia di civiltà come la riforma della diffamazione a mezzo stampa, ancora così lontana dai più elementari standard europei?
Per dare una risposta a tali quesiti, non sono bastati nemmeno i numerosi richiami provenienti dalle istituzioni europee e rivolti in più occasioni, anche di recente, al Parlamento italiano. Una vera e propria messa in mora da parte dell’Ue, nei confronti della quale la riforma della legge sulla diffamazione da mesi all’esame del Senato – in cui si stabilisce la fine del carcere per i giornalisti, ma non si affronta il ben più dirimente nodo dell’intimidazione – appare una risposta del tutto insufficiente.