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(Proponiamo una rilettura dal nostro archivio. Articolo pubblicato il 12.12.2017)
Hillary Clinton, ai tempi in cui era impegnata nella campagna elettorale, notò che un numero sempre maggiore di americani erano impegnati a svolgere “lavoretti” per arrotondare lo stipendio (e ancor più spesso la pensione), per conto di aziende e startup del digitale, come Airbnb, Lyft o l’ancor più famosa Uber. La Clinton, a differenza dei politici conservatori, non era entusiasta di tale sistema. A New York, già nel luglio 2013, ebbe a dire che “questa economia on demand o cosiddetta gig sta creando opportunità entusiasmanti e scatenando l’innovazione, ma solleva anche domande difficili sulle protezioni del posto di lavoro e su come sarà il lavoro in futuro”.
Le aziende della gig economy trattano in realtà prodotti per nulla digitali: stanze e appartamenti in affitto Airbnb, servizi di trasporto taxi Uber o Lyft, consegna di cibi a domicilio Foodora o Deliveroo. La novità è che tutte quelle citate (e le molte nate a loro immagine e somiglianza) sono delle mere piattaforme online, che permettono ai proprietari (di immobili, di biciclette o di automobili) di incontrare clienti a cui fornire il proprio servizio, pagando un corrispettivo per il servizio di intermediazione.
Un tradizionale taxi giallo che potete usare in una città americana è di proprietà di un’azienda, la quale assume gli autisti, acquista la benzina e versa le tasse al Comune nel cui ambito si svolgono le sue attività. Nel caso delle piattaforme online non si verifica nulla di tutto ciò, con il risultato che si mettono a rischio non solo i lavoratori, come dimostrano le proteste dei conducenti di taxi che hanno portato a limitare Uber in molte città, ma anche l’economia, come dimostrano le proteste di molti sindaci americani che accusano Airbnb di essere responsabile della carenza di case in affitto e dell’aumento dei prezzi. Senza dimenticare, fenomeno ancora più dirompente, l’effetto delle piattaforme che intermediano al massimo ribasso mere prestazioni lavorative, dalle traduzioni sino alla preparazione dei cibi.
Ma l’economia dei lavoretti a quanto ammonta? Va detto subito che è tutt’altro che semplice stimarne l’ampiezza. Quel che sappiamo con certezza è che la capitalizzazione di Borsa delle società più note è quasi sempre miliardaria, ma questo dipende più dalle prospettive future (spesso sovrastimate da analisti finanziari ottimisti) che non dai reali profitti delle aziende. Sul fronte statistico, anche i dati dei governi non aiutano molto e chi ha analizzato le maggiori imprese del settore concorda sul fatto che, sebbene la crescita sia rapida, i numeri, se confrontati con l’insieme delle forze di lavoro, sono ancora bassi. L’Ufficio statistico degli Usa tramite il Contingent work supplement, tentò sino al 2005 di misurare i lavoratori a chiamata, ma, secondo Annette Bernhardt, dell’Institute for research on labor and employment di Berkely, questa parte dell’indagine sulle forze di lavoro era ben poco affidabile.
Eurostat, per quanto riguarda l’Europa, si limita a una misurazione tradizionale degli occupati, che per risultare tali basta abbiano lavorato almeno un’ora in una settimana riferimento, differenziandoli secondo il tipo di occupazione (dipendente/indipendente), la durata del contratto (tempo determinato/indeterminato) e il numero di ore lavorate (full/part time). Quest’anno probabilmente verrà svolta un’indagine ad hoc sul lavoro autonomo, che potrebbe dare qualche indicazione ulteriore.
In America alcuni ricercatori hanno tentato di collegare il fenomeno della gig economy con la crescita dei lavoratori autonomi senza dipendenti, passati dai 15 milioni del 1997 ai poco meno di 24 nel 2017 (dal 12 al 16,4% dell’occupazione). In particolare nel settore dei trasporti urbani, ove operano Uber e Lyft, l’occupazione autonoma è cresciuta tra il 2010 e il 2014 del 69%, mentre quella dipendente del 17%. Non lo stesso accade invece per il settore degli affitti, anche perché Airbnb negli Usa non insegue più il singolo proprietario, ma si sta trasformando rapidamente in una piattaforma per aziende che gestiscono grandi patrimoni immobiliari. Quindi è molto difficile affermare che la crescita di imprese senza addetti negli Usa dipenda dall’economia dei lavoretti, se non altro perché in questo settore troviamo moltissimi studenti, pensionati e lavoratori a basso reddito che, partiti per arrotondare gli introiti, si trovano a svolgere 40 o più ore di lavoro ogni settimana.
Ma è altrettanto certo che in qualche modo i due fenomeni, almeno in America, sono collegati. In Italia, dove i lavoratori autonomi senza dipendenti sono circa 3,5 milioni, non vi sono evidenze, né di crescita (anzi, rispetto al 2006 vi è stata una flessione di due punti percentuali), né di collegamento con la gig economy: nei trasporti il lavoro autonomo è cresciuto di appena 20 mila unità in 10 anni. Ma ciò non significa che il fenomeno, seppur limitato, non sia in rapida espansione.
Anche il mercato dei lavoretti completamente online (quelli che, a differenza di Airbnb e Uber, non richiedono il possesso di immobili o di auto) è in forte crescita. Il lavoro affittato online, nel Regno Unito, è cresciuto, tra il luglio 2016 e il luglio 2017, del 26%, e riguarda le più svariate attività professionali: sviluppo di software, produzione di siti web, scrittura di testi, traduzioni e altre attività più o meno creative. I datori di lavoro, in poco meno del 50% dei casi, sono americani, seguiti da quelli europei. Le quattro piattaforme più utilizzate nel Regno Unito hanno circa 3,5 milioni di utenti registrati e, ogni settimana, intermediano oltre 100 mila lavoretti. Negli Usa la società Upwork, nata nel 2003, offre oltre 3.500 diverse professioni e genera compensi per circa un miliardo di dollari l’anno.
Malone e Laubacher, due studiosi del Mit, Massachusetts Institute of Technology, in un articolo del 1998 sull’Harvard business review ipotizzavano l’avvento in America di un’economia dell’e-lancers, il libero professionista elettronico. Secondo loro, le “regolari relazioni di lavoro”, quelle cioè svolte con un contratto di lavoro dipendente prima o poi verranno sostituite da un’economia basata sul lavoro autonomo svolto tramite le reti di comunicazione. Le aziende, che in tale economia sarebbero diventate sempre più decentrate, anziché assumere personale, avrebbero trovato ben più conveniente appaltare quote crescenti di lavoro a consulenti esterni, con i quali rimanere in contatto esclusivamente in via telematica.
Tali e-lancers, dal canto loro, avrebbero combattuto per la conquista delle commesse su di un mercato del lavoro virtuale, ove gli stock di lavoro sarebbero stati messi all’asta su Internet e assegnati al miglior offerente (chi offre il prezzo più basso), all’opposto di quanto accade per gli oggetti messi in vendita su e-bay. Tale scenario per alcuni versi appariva particolarmente attraente agli autori, in quanto avrebbe liberato i professionisti di maggior valore dotati di skill pregiati dalle limitazioni del rapporto di lavoro dipendente e avrebbe permesso di vendere le loro prestazioni su un mercato mondiale e globalizzato. Per capirci, quello che accade oggi grazie alle piattaforme come l’italiana Jobby, che tramite una app permette ai candidati di scegliere se offrirsi per una retribuzione minima di 8 o 4 euro l’ora, in una sorta di dumping autolesionista attuato dagli stessi lavoratori.
Malone e Laubacher, circa 20 anni fa, avevano colto il rischio che si celava dietro all’economia dei lavoretti: le persone sarebbero divenute molto più indifese senza i programmi di welfare attivati dalle grandi imprese e in mancanza della tutela di un contratto di lavoro concordato tra aziende e sindacati. Per di più, la scomparsa dell’ambiente sociale e aziendale e della relativa comunità aliena le persone, facendole produrre magari a minor costo, ma con maggiore difficoltà e costi cognitivi, senza occasioni di confronto e aggiornamento professionale. In fin dei conti, anche se oggi sembra che le aziende se ne siano dimenticate, il lavoro non è solo un rapporto economico, ma anche sociale. E perdere tale dimensione, forse, può rendere le aziende più “veloci” e profittevoli, ma sicuramente le indebolisce e alla lunga le disgrega.
Patrizio Di Nicola insegna Sociologia dell’organizzazione e dei sistemi avanzati all’Università La Sapienza di Roma