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Precari, sottopagati e senza diritti. Tre parole per riassumere quasi un’intera generazione di giovani cresciuti a pane e lavoro 4.0. Ci sono loro dietro a ogni consegna, ordine, passaggio e servizio definito low cost. Sì, perché oggi tutto costa meno e possiamo averlo in modi sempre più comodi e veloci. Ma a pagare il prezzo più salato di quella che ormai viene comunemente – e un po’ pomposamente – definita la quarta rivoluzione industriale sono proprio gli addetti in questione, impegnati in un settore trasversale, in crescita e senza regole. La paga oraria di un fattorino di Amazon o di un rider di Foodora è di circa 7-8 euro lordi. E se non lavora non guadagna.
È la gig economy, l’economia dei lavoretti, legata al digitale e diventata ormai, nell’indifferenza generale, la nuova frontiera della precarietà. Un modello che, se da un lato offre molte possibilità, non riesce a sostituirsi al modello tradizionale. Amazon, Uber, le imprese di consegne di alimenti a domicilio come Deliveroo o la discussa Foodora si avvalgono del lavoro digitale per abbattere i costi della manodopera. Ma anche attività immateriali, come il giornalismo, la grafica o il web design, fanno ricorso a lavoro a cottimo, paghe sempre più basse e versamenti previdenziali insufficienti o inesistenti.
“Queste piattaforme offrono servizi diversi con modalità diverse – afferma Ivana Pais, sociologa dell’economia e docente all’Università Cattolica di Milano –. È un settore in via di sviluppo e ogni azienda sta costruendo logiche differenti, chi rivolta alla condivisione e chi a modelli che tendono a sfruttare la manodopera. Ma d’altra parte, a fronte di minori tutele e soprattutto paghe inferiori, ci sono degli aspetti da non sottovalutare, come la flessibilità degli orari e l’indipendenza del lavoratore. Imporre delle regole stringenti in questa fase sperimentale e di sviluppo, rischia di snaturare il settore, per quanto siano evidenti i problemi, che devono essere denunciati e risolti. Insomma, dobbiamo stare attenti a comprenderne le opportunità, garantendo condizioni di lavoro dignitose”.
Qualcosa comunque comincia a muoversi, come testimonia la crisi della compagnia aerea low cost Ryan Air: centinaia di migliaia di voli cancellati fino alla primavera prossima, apparentemente a causa di un problema di gestione delle ferie. Ma in realtà le condizioni di lavoro sempre più precarie, con paghe inferiori allo standard, hanno spinto molti piloti verso compagnie che offrono un trattamento migliore. Un’emorragia di personale che ha contribuito a far esplodere il caso. Ma già lo scorso anno i rider di Foodora, azienda tedesca di consegne di cibo a domicilio, avevano scioperato per reclamare maggiori diritti e paghe migliori. Lo scontro, nato a Torino – città cuore dell’innovazione –, si è poi spostato in Parlamento con la proposta di legge di Giorgio Airaudo, che insieme all’altra di Pietro Ichino, è tra i primi tentativi di regolarizzare il settore e frenare un fenomeno definito ormai caporalato digitale.
Proposte a cui non sono state risparmiate critiche. “Entrambi i disegni di legge mostrano le arretratezze culturali dei proponenti – afferma deciso Claudio Treves, segretario generale di Nidil Cgil –. Sono più che altro miranti a risolvere piccoli aggiustamenti, anziché misurarsi con le grandi novità e con le sfide che ci troviamo davanti. Perché è senz’altro vero che ci sono i benefici di un orario flessibile, ma questo è controbilanciato dal rischio di un’intrusione del committente nella vita del lavoratore. Senza dimenticare il fatto che stiamo parlando di un ambito in cui la maggior parte delle attività si svolge in assenza di diritti e di tutele”.
Un altro degli aspetti critici del settore è nella sua distanza dal mondo sindacale, che con fatica riesce a intercettare i bisogni di questi lavoratori. Che a loro volta, mancando di un inquadramento lavorativo, non ricercano tradizionali forme di rappresentanza, ma tendono ad autorganizzarsi. Usando forme e strumenti nuovi. Lo sciopero dei rider torinesi di Foodora ha trovato sponda nella cooperativa mutualistica belga Smart (creata a Bruxelles nel 1998 e sbarcata in Italia nel 2014), nata nell’ambito di una comunità di artisti con le stesse problematiche e le stesse difficoltà di amministrazione del lavoro per condividere strumenti di tutela e gestione dei propri progetti. A differenza di Smart, oggi presente in nove paesi europei, Acta, associazione che vuole colmare il vuoto di rappresentanza del mondo del lavoro per professionisti indipendenti, è tutta italiana e opera solo nel nostro Paese.
“È chiaro che l’autorganizzazione è il primo passo per i lavoratori estranei alla cultura sindacale confederale – spiega ancora Treves –, ma Nidil non si è mai tirata indietro nella ricerca di un rapporto con questi lavoratori, intessendo spesso rapporti con loro, in particolare nella vicenda di Foodora a Torino o di Deliveroo a Milano. La distanza è data in particolare dalla sostanziale estraneità nei confronti della necessità di un riconoscimento dei loro diritti: c’è voluto tempo prima che nascesse la consapevolezza che non tutto andava nel migliore dei modi. Per consolidare l’adesione al sindacato è necessario un impegno di lunga durata, di carattere culturale e capace anche di sostenere soluzioni per i bisogni immediati. Per il sindacato confederale si tratta di un compito cruciale, da assumere consapevolmente”.
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