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Ci sono punti in ogni città dove il passato si vede meglio, basta saperli cercare. Posti dove le epoche successive si sono meno impossessate di qualcosa di originario che resiste, come queste piccole case del distretto minerario di Carbonia. Sono strette una all’altra, tinteggiate di giallo color pastello negli intonaci scrostati, di verde o d’azzurro, coi camini fumanti, le piccole strade sterrate e le file di lampioni, quell’aria lumpen qui molto forte in ogni cosa, che ti fa sentire una fratellanza di corpi diversa nelle strade e dentro gli appartamenti. Vicino ai giardinetti, di lato agli ingressi, a metà di queste viuzze polverose, le piccole utilitarie parcheggiate, un ragazzino che si lancia con lo scooter, l’aria di silenzio e di desolazione. I giovani come loro, quelli che abitano qui, sanno di non avere lavoro e futuro, forse un giorno saranno costretti ad andare in continente, fuggire da questo paese senza ricchi dove la classe operaia esiste ancora, più forte e combattiva che altrove: livella le distanze, abbassa i privilegi, rende il tenore di vita più popolare.
Qui c’erano solo minatori e figli di minatori che avrebbero intrapreso anche loro la via del sottosuolo, solo musi neri, facce bronzee come quelle dei bassorilievi, in questa doppia esistenza sopra e sotto la terra, tra la luce e il buio, e minatori ci sono anche adesso a Nuraxi Figus, l’ultima miniera italiana ancora attiva, i più fortunati prima della crisi sono andati a lavorare nelle fabbriche dell’alluminio nella zona industriale di Portovesme, all’Alcoa, all’Euroallumina, alla centrale dell’Enel, tutti gli altri ingrossano da sempre il popolo sterminato dei disoccupati. Sotto, vicino alla stazione, dove si è sviluppata la zona commerciale, c’è il cadavere della grande miniera di Serbarìu, dove anticamente si trovava un borgo di pastori, con il castello del pozzo metallico che svetta verso il cielo e la lampisteria.
Giù in miniera
Poi in miniera ci sono sceso davvero, a Nuraxi Figus, a un tiro di schioppo da Carbonia, il giorno dopo che in quella di Sora, in Turchia, durante un cambio di turno, a causa di un incendio innescato in una delle gallerie sotterranee morivano 301 lavoratori. Nel 1992 nella miniera di Zonguldak ne erano crepati 263. A 400 metri sottoterra si trovavano 787 minatori al momento dell’incidente, stavano ancora vagando come topi nelle viscere della terra mentre i soccorritori pompavano ancora aria fresca verso le gallerie invase da fiamme e fumo spesso, nel tentativo di estrarre i corpi, e davanti ai cancelli si erano radunati i famigliari dei minatori intrappolati.
Qui non siamo in Turchia, ma il Sulcis è la provincia più povera d’Europa, 30.000 disoccupati su 130.000 abitanti, e 40.000 pensionati dell’industria, spesso usciti dal mondo del lavoro per aver contratto malattie come la silicosi. Ma quella che tutti chiamano la crisi spesso è invisibile, la dignità la nasconde, riesce addirittura a cancellarla, però basta attraversare via Gramsci per rendersi conto di quante saracinesche sono abbassate, quanti negozi hanno chiuso i battenti. Mi hanno detto che la gente va al centro commerciale, ma per fare un giro, soprattutto il fine settimana, comprano poco o niente. Forse già adocchiare le merci fa stare più allegri. Un signore al bar del dopolavoro, che sta proprio in piazza Roma, tra il teatro e la torre, mi ha raccontato che in una piccola edicola di via Nuoro si raccolgono fondi per chi non arriva alla fine del mese, deve pagare bollette o non ha più i soldi per mangiare. Ma in questa terra da sempre precaria, e operaia, si è più abituati ai periodi difficili. Sarà forse per il fatto di convivere col maestrale, combattere sempre con il vento contro, ma la gente di queste parti sembra avere una naturale attitudine per la lotta. Saranno forse quelle del passato, che sono state moltissime, e agiscono ancora per coazione a ripetere anche nelle ultime generazioni.
A Nuraxi Figus, una volta indossata la muta, gli scarponi e il caschetto, attaccata la lampada e agganciato sulla cintura il respiratore d’emergenza, sono sceso con Elisabetta Fois, Stefano Farenzena e Sandro Mereu a 500 metri sottoterra, nella parte vecchia, con le gallerie basse e polverose, le risalite dove ti viene il fiatone, in alcuni punti una temperatura asfissiante di oltre quaranta gradi. Adesso è ferma, e la Comunità europea ha deciso di dismetterla in un piano di attuazione che dovrebbe compiersi dal 2018 al 2027.
Elisabetta, piccola di statura ma con un concentrato molto forte di combattività e intelligenza, delegata sindacale della Cgil, mi parla di un progetto al quale lavora dal 2009 per migliorare la qualità di questo carbone, che ha un alto tenore di zolfo, “ma c’è un sottoprodotto che può essere bene utilizzato in agricoltura o da siti contaminati da metalli pesanti, così abbiamo pensato a un impianto pilota sperimentale che consiste in un lavaggio del minerale in doppio stadio per ridurne la componente di zolfo senza perdita di potere calorifero.” Questo sottoprodotto costituirebbe la vera novità da un punto di vista tecnologico, perché è un ottimo attivatore delle radici delle piante, tanto che ci sono stati contatti sia con la Cifo che con la Biogarden International, multinazionali che vendono fertilizzanti. “Da un lato si migliora la qualità del carbone, e dall’altro si produce una cosa che nella catena di verticalizzazione è innovativo, solo che per il momento il progetto è fermo, purtroppo.” Sottoterra, un altro minatore, Sandro Mereu, corpulento e baffuto, una fierezza che mette paura, racconta una storia che qui è quella di molti: “Sono figlio di un minatore, già da bambino vivevo la vita delle miniere, qui sono nate le prime battaglie sindacali e il primo sciopero nazionale di tutte le categorie, ci sono stati degli eccidi, a Bugerru, Gonnesa, sapere che in Sardegna non c’è una miniera in produzione è come se sparissero i pastori. Ma è nei momenti difficili che si vede il legame che c’è tra i minatori, sono sicuro che uniti e con le nuove tecnologie riusciremo a tenerla aperta.”
Mobilitazione continua
Con Roberto Puddu, segretario della locale Camera del lavoro, facciamo invece un giro nella zona industriale di Portovesme, dove i lavoratori del polo dell’alluminio, soprattutto dell’ Alcoa, continuano la loro lotta contro la chiusura, ci fermiamo a lasciare viveri a quelli di loro che hanno piantato le tende, da qualche giorno passano qui anche la notte in attesa di risposte sulla paventata vendita. Qui la mobilitazione in questi anni è stata continua, dagli operai che bloccavano le navi e gli aerei, al movimento delle partite iva, fatto da associazioni di artigiani e commercianti, tutte forme di democrazia partecipativa.
"La gente ricomincia auscire di casa adesso" dice Roberto con fare positivo mentre giriamo in auto per la cittadina che è uno dei simboli della architettura fascista. “Questa città fino alla fine del 2008 era ancora ricca di cultura, di attività, la produzione industriale garantiva diecimila buste paga che si triplicano se pensi al terziario, ai servizi, poi tutto è precipitato.” Mi racconta che la storia di questa gente nasce dalle lotte dei primi anni del secolo, “mette insieme solidarietà e dignità” ci tiene a precisare, se uno è in difficoltà è più facile che si chiuda in casa che vada a chiedere l’elemosina. Il welfare è tutto dentro la cultura operaia del mutuo soccorso e delle forme associative come il sindacato, è la famiglia allargata, il vicino di casa, gli amici, un pezzo di socialismo ‘reale’ che resiste in questi tempi bui di individualismo autistico e neoliberismo”. E poi qui si vive di ammortizzatori sociali, ordinari, in deroga, di pensioni. “Il nostro è un territorio che ha sempre convissuto con la lotta e con la crisi, che si è sempre reinventato, passando dalle miniere all’industria pesante con delle competenze specifiche, i minatori sono diventati tecnici di elettrolisi di sale, di progettazione, sono loro stessi che hanno inventato nuovi saperi e modelli produttivi, il nostro è un po’ un laboratorio.”
Adesso nella provincia più povera d’Europa, con migliaia di cassaintegrati, disoccupati, e la cronica fame di lavoro, in una regione violentata da una industrializzazione selvaggia, con la presenza di quella Necropoli sul mare che è la Saras, a Sarroch, sotto Cagliari, la raffineria dei Moratti, pare si voglia offrire a questa terra e ai suoi abitanti di diventare una discarica permanente di scorie nucleari. Lo si deduce leggendo alcuni documenti dell’Ispra (Istituto superiore per la ricerca e la tutela ambientale), nei quali l’isola verrebbe individuata come un luogo ideale. L’ultimo, vigliacco ricatto di un capitalismo italiano molte incline all’improvvisazione e al tangentismo, capace solo di depredare il suolo e le persone, come quelle famose mosche di cui parlava, con lungimiranza, lo scrittore Paolo Volponi: “Le sapienti colorate voraci mosche del capitale, sì, le mosche... per di più svolazzano e ronzano dappertutto, in bell’inglese, per andare a succhiare e a sporcare.”