Nel 2010 la Commissione europea ha varato un documento che doveva segnare un nuovo inizio. “L’Europa deve ritrovare la via giusta e non deve più perderla. È questo l’obiettivo della strategia Europa 2020: più posti di lavoro e una vita migliore” affermava il presidente Barroso nella premessa al documento europeo che promuoveva tre priorità: crescita intelligente; crescita sostenibile; crescita inclusiva. Per farlo, l’Europa si è data 10 anni di tempo per raggiungere sette obiettivi, tra cui figurano come prioritari: il lavoro per il 75 per cento delle persone con una età compresa tra i 20 e i 64 anni; la lotta contro l’abbandono scolastico; la riduzione della povertà.

A distanza di quattro anni, però, la situazione è rimasta sostanzialmente immobile. Nel 2013, il tasso di occupazione nell’Unione europea della popolazione in età di lavoro è rimasta pressoché invariata, al 68,3 per cento, con un calo di un decimo di punto rispetto all’anno precedente. Siamo dunque ben lontani dall’obiettivo fissato nel documento europeo. Se poi, si sposta l’attenzione sul nostro paese, i dati dell’Istat tracciano un quadro ancor più desolante perché confermano, se mai ne avessimo avuto bisogno, una situazione ancor più preoccupante che investe di più le giovani generazioni: tra i 15 e i 34enni il tasso di occupazione è sceso di oltre 12 punti percentuali tra il 2004 e il 2013, passando dal 52,1 al 40,2 per cento. In valori assoluti, questo significa che solo 4 persone su 10 svolgono una qualche attività.

Se si restringe lo sguardo sui 25 e 34enni, si contano 2 milioni di posti di lavoro in meno nello stesso decennio. Sono, dunque, i giovani – il nostro futuro – che pagano di più gli effetti di una crisi così prolungata e non ancora superata, ai quali si guarda già come “generazione perduta”, privata, a dispetto dell’età, di qualunque prospettiva. L’impressione è che per loro, le istituzioni nazionali e europee abbiano rinunciato in partenza a fare qualunque cosa.

Sono ragazzi ai quali dopo la scuola non è stata offerta nessuna possibilità di sperimentare forme di apprendistato formativo, tanto meno di partecipare a stage retribuiti, né di collaudare la flessibilità alla “danese” (lavoro-studio). In questi lunghissimi 6 anni di crisi, hanno testato sulla loro pelle solo lunghi periodi di disoccupazione, interrotti da tanti tipi di lavoro atipici dietro i quali si celano forme contrattuali precarie (la Cgil ne conta 46 in Italia), ammesse per legge, che hanno fatto diventare le tutele previdenziali, retributive e assistenziali optional di cui si può fare a meno: meno maternità, meno contributi previdenziali, meno ammortizzatori sociali, meno retribuzione, niente ferie, niente liquidazione, niente Tfr e figurarsi se si possa pretendere per loro una pensione o un contratto a tempo indeterminato.

Invocando la flessibilità, i nostri legislatori hanno fatto diventare il mercato del lavoro un contenitore di variopinte, quanto fantasiose occupazioni a tutele zero. Ad una così totale assenza di diritti ne deriva, conseguentemente, una totale insicurezza che rende i nostri figli sempre più dipendenti dalle famiglie, che restano sempre, seppur più fragili anche loro, l’unico vero “ammortizzatore sociale universale”. Una generazione quella dei giovani d’oggi, nei quali prevale, dunque, un profondo senso di scoraggiamento che si riflette nella sfiducia verso la possibilità di poter conseguire una laurea: in meno di dieci anni si sono registrate 78 mila iscrizioni in meno presso le università, di cui 30mila iscrizioni nell’ultimo triennio; ma anche nella ripresa di migrazioni interne ed esterne verso regioni italiane più ricche e/o al di fuori dei confini nazionali, accompagnate, spesso, da rientri nei paesi di origine, come rilevano gli ultimi dati di Svimez, dopo tentativi falliti di trovare una loro adeguata collocazione.

I giovani più intraprendenti vanno all’estero e fanno parte di “quelli che”... quelli che non hanno la certezza di veder premiato il loro impegno; quelli che si sentono alla deriva nel loro paese e che emigrano oltre confine, certi di trovare “comunque” un modo di sopravvivere; quelli che, con un’alta formazione universitaria, definiti “cervelli in fuga” (ingegneri, ricercatori, etc.), la cui fuga però contribuisce in modo determinante all’immiserimento culturale e professionale dell’Italia presente e futura. Secondo gli ultimi dati dell’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire), nel 2012 sono stati circa 68mila gli italiani che si sono trasferiti all’estero, con un aumento medio nazionale del 3% rispetto all’anno precedente; l’incremento più forte si è registrato nell’Italia settentrionale; di questi, avverte il Censis, il 72 per cento è già occupato e il restante è ancora in cerca di lavoro.

La maggior parte (il 54,5%) risiede in Europa
, ma sempre più persone si spostano anche verso mete asiatiche. Un italiano su cinque è partito per motivi di studio. Sono dati sconfortanti che rappresentano la sconfitta di un Paese colpevole di non aver saputo sviluppare politiche in grado di accogliere questi giovani e le loro competenze, di non aver rispettato il loro diritto al lavoro, previsto dalla Costituzione, di aver negato loro anche la speranza di costruirsi un futuro dignitoso. Ad una situazione di così forte precarietà dei diritti, parallelamente sale sempre di più la quota degli scoraggiati che, considerati nella fascia di età 15-34 anni, sono stimati in 3,7 milioni.

Nel confronto con altre nazioni europee, l’Italia ricopre il primato dei Neet, con il 22,2% (fonte Eurostat), seguita dalla Bulgaria con il 21,6%, dalla Grecia con il 20,6%, dalla Spagna con il 18,6%. A distinguerci dagli altri Paesi, ancora una volta non è solo la quantità degli sfiduciati, ma la così elevata presenza fra loro di donne che, subendo difficoltà maggiori nell’accesso al lavoro (dimissioni in bianco e precarietà diffusa), alle tutele (welfare familistico) e nella valorizzazione delle loro competenze (tetto di cristallo), hanno perso qualsiasi illusione di cambiare la loro condizione in un prossimo futuro! È chiaro che in una situazione così drammatica gli obiettivi previsti dalla “Strategia Europa 2020” sono sempre più inarrivabili per l’Italia, rendendo ancora più incolmabile il divario con gli altri Paesi europei.

Occupazione, istruzione, povertà sono chiaramente obiettivi comuni, da conseguire sia a livello nazionale che europeo perché prevedono necessariamente una reciproca utilità, ma dai quali evidentemente il Belpaese è ancora troppo lontano. L’avvio il 1° maggio di quest’anno dell’European Youth Guarantee, rappresenta una possibilità concreta per garantire ai giovani disoccupati, tra i 15 e i 29 anni, un percorso personalizzato in grado di offrire loro, entro un periodo di 4 mesi dall’iscrizione al programma, un orientamento, un rapporto di lavoro (apprendistato, contratto a termine o a tempo indeterminato), tirocini in Italia o all’estero, un progetto di servizio civile o altre misure di formazione, compresi percorsi di reinserimento scolastico. Il progetto, studiato per essere applicato nei territori in cui il tasso di disoccupazione giovanile e/o di genere supera il 25% (e in Italia parliamo di tutto il territorio nazionale, ad eccezione delle due province autonome di Trento e Bolzano e del Veneto), ha avuto un discreto successo tra i tanti giovani in stand by che non si sono lasciati sfuggire questa opportunità.

In poco più di un mese, le domande inviate finora al sito del governo “garanziagiovani.gov.it”, hanno superato quota 67mila. “È una grandissima opportunità che il nostro paese non può permettersi di gettare al vento – afferma Andrea Brunetti, responsabile giovani della Cgil – e il gran numero delle iscrizioni ne è la dimostrazione. Tuttavia, il vero successo lo verificheremo quando queste iscrizioni diventeranno un colloquio, una presa in carico del giovane; insomma, quando si concretizzeranno le opportunità anche in termini di qualità. Fondamentale è stato anche l’innalzamento dell’età, richiesto peraltro dalla Cgil, per accedere alla Garanzia Giovani, passando così dai 15/25enni ai 15/29enni. I dati, infatti, confermano che oltre il 50% delle richieste ha riguardato ragazzi e ragazze, che hanno superato la soglia dei 25 anni”. Sulla buona riuscita del progetto europeo in Italia, però, pesano due problemi consistenti: l’inefficienza dei centri per l’impiego che sono 500 su tutto il territorio nazionale, con poco più di 8 mila operatori, e le risorse con cui finanziarlo. In Francia, Germania e Inghilterra, i centri per l’impiego sono 10 volte di più e i rispettivi governi vi investono 5 miliardi di euro l’anno. L’Italia, invece, ne destina soltanto 500 milioni per una rete insufficiente, che si è mostrata finora incapace di offrire anche solo una quota minima di occupazione.

Le risorse stanziate dal nostro governo per il progetto Garanzia Giovani sono di 1,5 miliardi di euro, in parte resi disponibili dall’Unione europea e in parte dai Fondi nazionali. “Sono indubbiamente risorse ingenti – sottolinea Brunetti – ma, considerato che solo 60 milioni sono preventivati per l’unione delle banche dati, per la pubblicizzazione del progetto, per gli youth corner (punti di primo contatto) con personale dedicato, è necessario ottimizzarle per ottenerne il massimo rendimento. Da questo punto di vista, è necessario per noi stare il più possibile a contatto con questo progetto e con i giovani che vi si avvicineranno, per offrire loro la massima accoglienza/assistenza e la prima informazione”. Secondo la Cgil, è indispensabile fornire un orientamento sulle opportunità offerte dal progetto e mettere in condizione i giovani, che si rivolgeranno alle sedi sindacali, di capire come interfacciarsi con questa misura; spiegare loro che cos’è un tirocinio o un rapporto di lavoro e la differenza sostanziale che c’è tra le due cose; come poterli indirizzare e scegliere un corso di formazione per testarne la qualità; infine, più in generale, offrire a questi ragazzi e ragazze assistenza e tutela per rendere “Garanzia giovani” uno strumento realmente attivante per ciascuno di loro.

“Non dobbiamo far mancare un orientamento, dunque, alla tutela e all’autotutela per coloro che verranno nelle nostre sedi – sottolinea Brunetti –, che permetta loro di massimizzare le opportunità offerte. In questo senso, le Camere del lavoro e i nostri servizi (in particolare il Sol) potranno essere terminali importanti per avere informazioni e dare un notevole impulso al rafforzamento di un sistema di controllo sociale (prevenire gli abusi, denunciarli, etc.) che ci permetta, attraverso un’attività di monitoraggio costante e puntuale di orientare le scelte politiche che si determineranno, sia in termini di una eventuale riallocazione delle risorse (il 20% di esse, infatti, possono essere reindirizzate fino a settembre 2015), sia per ciò che concerne la valutazione di alcune delle azioni previste dal piano (ad esempio, i tirocini che sono sotto la nostra lente di ingrandimento per via del continuo utilizzo improprio dello strumento)”. Una sfida, dunque, che a vedere i dati è stata sicuramente raccolta dai giovani, i quali chiedono alle istituzioni nazionali e ai politici di tradurre tutto questo in una preziosa occasione per restituire loro dignità e rispetto dei diritti al lavoro e all’istruzione; condizione indispensabile per far ripartire la “macchina Paese” e contribuire ad affermare il principio di giustizia sociale in uno Stato di diritto.