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L'esito del vertice G20 di Brisbane (15 e 16 novembre) è stato caratterizzato – oltre che dallo scontro tra governi occidentali e il leader russo, Putin – dal sostegno, da parte della presidenza australiana, all'impegno di innalzare la crescita dei paesi del gruppo del 2,1% oltre lo scenario attuale, cosa che, secondo il premier australiano Tony Abbott dovrebbe portare alla creazione di “milioni di nuovi posti di lavoro”.
In realtà i modelli econometrici dell'OCSE e del Fondo Monetario Internazionale (FMI) sul quale l'impegno si baserebbe, assumono come punto di riferimento una situazione di pieno impiego, palesemente infondata di fronte all'attuale situazione dei mercati del lavoro della maggior parte dei paesi G20.
Alla conferenza stampa di chiusura, interrogato sul punto, Abbott ha dimostrato di fare quasi unico affidamento sul ruolo delle imprese, rappresentate dal B20 (Business 20): la loro inclusione nel vertice con i Capi di Stato e di Governo – e la contemporanea esclusione dei sindacati – è stata, secondo Abbott, la principale novità del summit, e la rinnovata “fiducia da parte delle imprese” avrà grandi effetti negli investimenti privati e quindi nella creazione di posti di lavoro.
Nel tentativo di dimostrare l'azione concreta di tutti i governi del G20, il Piano di Azione annunciato a Brisbane contiene, in tutto, 800 diversi impegni di politiche e misure da parte dei diversi paesi del gruppo.
Tuttavia, il centro principale delle diverse azioni rimane quello delle “riforme strutturali”, il cui effetto negativo sull'occupazione e sulle diseguaglianze stiamo già sperimentando, particolarmente in Europa. E non si vede sufficiente traccia, in queste politiche, del necessario sostegno alla crescita del potere d'acquisto dei lavoratori e allo stimolo alla domanda aggregata, senza i quali è prevedibile un'ulteriore distruzione di posti di lavoro, più che una loro creazione. Le “riforme strutturali” - come ben sappiamo in Italia - continuano a prevedere interventi di deregolamentazione del mercato del lavoro, con le prevedibili conseguenze sull'occupazione e sui salari.
E mentre il comunicato finale (vedi traduzione italiana allegata) invita con forza i governi a “assicurare che le politiche macroeconomiche siano appropriate al sostegno della crescita, al rafforzamento della domanda e alla promozione di un riequilibrio globale”, non si trova traccia di reali impegni concreti in queste direzioni.
La presidenza australiana si è anche distinta per tenere fuori dalla discussione alcuni temi non solo di grande rilevanza, ma comunque affrontati nei precedenti vertici del G20, come le diseguaglianze di reddito e i cambiamenti climatici. Il riferimento a “sostenere lo sviluppo e la crescita inclusiva, ad aiutare a ridurre la povertà” è stato inserito grazie alla spinta di alcuni dei leader presenti, ma non si traduce in alcun principio guida, né misura concreta. Lo sbandieramento dell'obiettivo di maggiore crescita del 2,1% entro il 2018 va preso ulteriormente con le molle di fronte al fatto che i soggetti che ne dovrebbero monitorare l'applicazione, con un confronto con i governi nazionali, sono l'OCSE e il FMI, escludendo l'ILO che, per natura e mandato, è l'istituzione internazionale più idonea a promuovere una crescita inclusiva, basata sulla creazione di posti di lavoro di qualità, l'estensione della protezione sociale, il dialogo sociale e la riduzione delle diseguaglianze.
Peraltro, le previsioni economiche, che gli stessi OCSE, FMI e Banca Mondiale hanno presentato alla vigilia del vertice, indicano un ulteriore rallentamento della crescita globale, con una robusta ripresa (3%) solo negli Stati Uniti, mentre per Giappone ed Europa le previsioni sono vicine alla stagnazione, con pesanti rischi di ulteriore recessione e di deflazione nell'Eurozona. Le economie emergenti, dal canto loro, mostrano dinamiche divergenti, con la Cina e l'India al + 7% e +6,4% rispettivamente, e il Brasile e la Russia in forte rallentamento.
Al di là dell'ottimismo sull'occupazione, l'ILO continua a denunciare una disoccupazione mondiale superiore ai 200 milioni di lavoratori, e un deficit di creazione di po ti di lavoro in salita, dai 62 milioni di quest'anno agli 81 milioni previsti per il 2018.
L'unico impegno preciso assunto dal G20 è quello di “ridurre il gap di partecipazione al mercato del lavoro tra uomini e donne nei nostri paesi del 25% entro il 2025”, così come è importante la decisione di trasformare la Task Force sull'Occupazione (promossa a partire dalla presidenza francese nel 2011 e focalizzata sulla disoccupazione giovanile) in un Gruppo di Lavoro permanente del G20.
Passi avanti positivi sono stati fatti sul progetto di ridurre l'erosione fiscale e lo slittamento dei profitti (BEPS) da parte delle imprese multinazionali, anche se i sindacati, riuniti nel gruppo L20, criticano la previsione di segretezza della rendicontazione fiscale e dei profitti paese per paese richiesta alle multinazionali e agli investitori e l'incapacità di affrontare veramente la questione delle banche e dei capitali “ombra”.
Allo stesso modo, il sindacato internazionale nota che non ci sono passi avanti di alcun tipo né sulla istituzione di una Tassa sulle Transazioni Finanziarie, né su nuove regole per smembrare i gruppi “troppo grandi per fallire” (“too big to fail”), né per separare le attività creditizie da quelle speculative. Anzi, la concentrazione finanziaria è aumentata dall'esplosione della crisi nel 2007-2008.
Come accennato, sostanzialmente assenti sono impegni sulla lotta al cambiamento climatico, nonostante, alla vigilia del vertice, Amministrazione Usa e governo cinese abbiano raggiunto un accordo, per quanto discutibile e insufficiente, sulla riduzione delle emissioni di gas serra. Ancora di più, i sindacati di L20 contestato la scomparsa, rispetto a precedenti vertici, di qualsiasi considerazione di misure per favorire la “giusta transizione” per i lavoratori da settori ad alto inquinamento e energivori a settori produttivi “verdi”.
Anche sulla catena globale del valore, a dispetto di stragi come quelle del Rana Plaza o della miniera di Soma, e in contraddizione con la dichiarazione sui “Posti di lavoro più sicuri” dei Ministri del Lavoro (lo scorso settembre a Melbourne) non ci sono reali impegni al rispetto dei diritti umani e sindacali, alla salute e sicurezza, al diritto a salari dignitosi e alla contrattazione collettiva, rilanciando anzi la logica della riduzione dei costi, seppur promettendo alle economie dei paesi terzi di profittare maggiormente “delle occasioni del commercio internazionale”.
L20 ha presentato al vertice – nel quale, come detto, non ha avuto accesso all'incontro con l'insieme dei leader dei paesi G20, mentre ha incontrato tutti i capi delle organizzazioni internazionali e, in incontri bilaterali, alcuni governi nazionali – una propria indagine sull'attuazione degli impegni dei vertici precedenti, in particolare rispetto alle ricadute sul mondo del lavoro. L'indagine (vedi la traduzione allegata) ha dimostrato che il 56% degli impegni precedentemente assunti non sono stati rispettati o, nel caso siano stati implementati, hanno avuto effetti nulli o negativi per l'occupazione e i diritti dei lavoratori.
A partire dal prossimo 15 dicembre sarà la Turchia ad assumere la presidenza del G20. I sindacati chiedono al presidente e al governo turco di ripristinare un effettivo dialogo sociale, dando pieno spazio alla presenza dei sindacati; di riprendere il tema delle diseguaglianze e del cambiamento climatico, così negletti durante la presidenza australiana; e di riproporre, come avvenuto durante la presidenza russa, un vertice congiunto tra ministri del Lavoro e delle Finanze, con una consultazione delle parti sociali.