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L'architettura europea, i trattati e la politica economica europea sono sbagliati. Non c’è più bisogno di dimostrarlo. A oggi, l’Europa ancora soffre degli stessi squilibri macroeconomici e, ancor di più, delle medesime debolezze strutturali della domanda effettiva e della produttività che l’hanno trascinata nella crisi globale. Non solo. Sono ormai numerosi gli studi – persino del Fondo monetario internazionale – che dimostrano come la tesi dell’austerità espansiva sia sbagliata, e non da ora. E come il Fiscal compact sia sinonimo di austerità.
Il “Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria” europea siglato il 2 marzo 2012 dai 18 paesi dell’Eurozona e da 7 altri Stati membri dell’Unione europea (non da Regno Unito e Repubblica Ceca), denominato Fiscal compact, prevede norme comuni e vincoli di natura economica che hanno come obiettivo il contenimento del debito pubblico nazionale di ciascun paese. Per di più, il Fiscal compact è portatore dei criteri economici e finanziari (compreso l’anacronistico contenimento dell’inflazione sotto il 2 per cento) e degli strumenti sanzionatori già contenuti nel Trattato di Maastricht del 1993 e nel Patto di stabilità e crescita del 1997, frutto più della storia e dei rapporti di forza geo-economici che del buon senso economico e democratico.
Le regole principali, infatti, prevedono: l’obbligo di mantenere al massimo al 3 per cento il rapporto tra deficit e Pil, già previsto da Maastricht; il limite dello 0,5 per cento di deficit “strutturale” in rapporto al Pil, al netto di spese “una tantum”, come i sostegni agli altri paesi europei, e al netto delle cosiddette componenti cicliche, cioè le emergenze e le congiunture negative; per i paesi con un rapporto tra debito pubblico e Pil superiore al 60 per cento (limite imposto dalla Germania, autoproclamatasi benchmark di riferimento), l’obbligo di ridurre il rapporto di almeno un ventesimo all’anno (per i paesi che sono appena rientrati sotto la soglia del 3 per cento nel rapporto deficit-Pil – come l’Italia – i controlli su questo vincolo inizieranno nel 2016); l’inserimento del pareggio di bilancio di ciascuno Stato in “disposizioni vincolanti e di natura permanente, preferibilmente costituzionale”. Tali regole, di per sé, risultano sbagliate, tanto quanto impossibili.
Eppure, in Italia, nell’interpretare le disposizioni europee, siamo riusciti anche a fare di peggio. In ragione della crisi dei debiti sovrani dell’eurozona divampata nel 2009, per contrastare la speculazione finanziaria e nella ricerca di fiducia nei mercati sulla solvibilità del debito sovrano, il pareggio di bilancio si è preferito inserirlo nella Costituzione, con una modifica all’articolo 81, approvata il 17 aprile del 2012. Nonostante il debito pubblico italiano fosse cresciuto meno che nel resto d’Europa e il nostro paese avesse speso meno di tutte le economie avanzate del pianeta per stimolare la ripresa – senza nemmeno ricorrere a prestiti internazionali (come Grecia, Irlanda, Spagna, Portogallo e Cipro) – il governo Monti ha imposto interventi di riduzione della spesa pubblica e del patrimonio dello Stato, oltre ad aumenti generalizzati di tasse e imposte, che hanno moltiplicato depressione e deflazione.
Il “signore per bene”, che veniva dopo Berlusconi, spiegava che bisognava ridurre il debito pubblico; agevolato dal martello mediatico dello spread, che solo in pochi – tra cui la Cgil – spiegavano non essere fondamentale per governare i tassi d’interesse e la domanda di titoli pubblici italiani quanto le variabili esogene (per esempio, il tasso di cambio dell’euro) e i rapporti interciclici (le misure di sostenibilità delle finanze pubbliche con il Pil al denominatore). E così, nel 2012, il premier e ministro dell’Economia e delle Finanze Monti aveva previsto di portare al 2014 il rapporto deficit-Pil allo 0,1 per cento e di raggiungere il pareggio di bilancio strutturale addirittura in anticipo rispetto a quanto previsto dai trattati, con effetto di ridurre anche il debito pubblico al 118,2 per cento del Pil già prima dell’entrata in vigore del Fiscal compact.
Naturalmente, tutta quella austerità generò una spirale recessiva – ancora in corso – tale da mancare ogni previsione economica, registrando una perdita di prodotto nazionale di almeno 4 punti dal 2012 alla fine di quest’anno (non la crescita dello 0,3 prevista da Monti, comunque modesta), sospingendo il debito oltre i 133 punti e il deficit attorno al 3 per cento. E con la legge 24 dicembre 2012, n. 243 (“Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione”), la stessa cosa è avvenuta nel 2013, con Grilli, ministro dell’Economia sempre del governo Monti, e con Saccomanni, ministro dell’Economia del governo Letta.
Tutti più realisti del re. Se fossero stati utilizzati anche solo i margini di spesa entro il 3 per cento e le scadenze temporali previste dalla stessa governance europea – senza l’eccesso di zelo “tecnico” – oggi in Italia si conterebbe una crescita più sostenuta, meno disoccupazione e meno debito pubblico. Anche su questa base, il governo Renzi – sulla scorta delle elezioni europee e della preoccupazione della Bce per la deflazione – cerca di ottenere il via libera della Commissione per un’austerità flessibile, anche in occasione del turno italiano di presidenza del Consiglio dell’Unione europea. In sostanza, il ministro dell’Economia Padoan propone diverse modalità di computo degli investimenti pubblici e di calcolo delle riforme strutturali in termini di impatto macroeconomico, almeno per rinviare di un anno o due il pareggio di bilancio. Di certo, si tratta di un cambio di approccio. Tuttavia, anche ammesso che il governo riesca a spuntarla, resterebbe l’obiettivo tendenziale di azzeramento dell’indebitamento netto, che vuol dire produrre comunque avanzi primari che sottraggono risorse per il rilancio dell’economia italiana.
A oggi, purtroppo, per uscire dalla crisi non basta un po’ di flessibilità. D’altra parte, nei vent’anni precedenti alla crisi, il bilancio pubblico italiano ha vantato il record dei saldi primari tra tutte le economie europee. Nel 2014 abbiamo l’avanzo primario più alto tra i paesi Ocse. Ma tutto ciò non riduce il debito pubblico, né risolve le debolezze strutturali alla radice del declino economico nazionale. Anche trascurando per un attimo il contenzioso tra rigore e crescita, i calcoli mostrano che con un debito pubblico attorno al 130 per cento, a parità di altre condizioni (per esempio, inflazione e di tassi di interesse attorno al 2 per cento), destinare 3 punti di Pil all’economia reale, cioè investimenti pubblici, welfare, aumento dei redditi netti, nuova occupazione, oppure programmare avanzi primari di 3 punti di Pil, ogni anno per vent’anni, produce lo stesso risultato: un rapporto debito pubblico-Pil pari al 60 per cento nel 2035. Ecco perché la Cgil ritiene fondamentali i 4 quesiti referendari che abrogano i passaggi della legge 243 con cui si impongono vincoli aggiuntivi rispetto alle norme europee e allo stesso Fiscal compact, anche per aprire la strada a una rivisitazione delle politiche macroeconomiche europee.