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Scherza con i fanti, ma non toccare i Santi. Il giorno dopo la proposta del governo di accorpare le festività per aumentare la produttività del lavoro, le polemiche non si placano e, anzi, dal fronte cattolico arrivano critiche pesanti, come quelle del settimanale Avvenire.
Il sottosegretario Polillo ieri aveva spiegato che “lavorare nove mesi all'anno a un Paese come il nostro non basta più. La concorrenza internazionale ci sottopone a uno stress che va fronteggiato diversamente: anch'io avrei preferito che si potesse continuare come prima, ma non si può”. Dunque, avanti con l'accorpamento delle ferie e dei ponti per far ripartire il Paese.
"Non toccate le 'nostre' feste. No al rullo compressore", è la risposta che oggi il settimanale dei vescovi affida a un editoriale del direttore Marco Tarquinio: "C'è in ballo, a quanto pare, addirittura l'uno per cento del Pil - ironizza Tarquinio -. E allora ecco la lista: via Sant'Ambrogio, via Sant'Agata, via Sant'Ubaldo, via San Gennaro... E ancora via Primo Maggio, via 25 Aprile, via 2 Giugno... Potrebbe sembrare una questione di toponomastica, e invece - ohibò - è una questione di ricchezza perduta. Fare festa costa e soprattutto - ma chi l'avrebbe mai detto - interrompe i ritmi di produzione e di lavoro e, dunque, fa più povera l'Azienda Italia".
Il quotidiano dei vescovi sottolinea che questa "sarebbe l'ultima, rombante e sferragliante, passata di rullo compressore su un calendario che per tanti italiani e italiane non ha più domenica". E per recuperare l'uno per cento del Pil, lamenta Tarquinio, "basterebbe spazzar via tutte quelle secolari anomalie festaiole fondate sui sentimenti religiosi e popolari della nostra gente, su radicate o piu' recenti tradizioni civiche o su avvenimenti legati alle vicende storiche e sociali di quest'Italia che ha appena compiuto 151 anni di unità politica e 64 di sana e robusta (nonostante i tempi grami) Costituzione repubblicana".
Perplesso sulla proposta dell'accorpamento è anche il ministro per la cooperazione, Andrea Riccardi, intervistato dalla 'Stampa'. “Abbiamo appena concluso i festeggiamenti per i 150 anni dell'Unità d'Italia - fa notare il minstro - durante i quali è stata forte la pedagogia civile sull'essere italiani”, e ora “toccare date simboliche come il 25 aprile mi sembra stridente e lesivo dell'identità che si voleva preservare. Per non parlare del primo maggio, la cui abolizione (o accorpamento che sia), avrebbe in questa congiuntura anche una valenza depressiva”, come dire “non c'è il lavoro in questo paese, al punto che noi ne aboliamo perfino la festa. Segnale pessimo”.
Quanto alle feste religiose, “le piu' importanti - fa notare Riccardi - sono sancite dai patti lateranensi. Tutto si può rivedere ovviamente, ma iniziare una trattativa con la Santa Sede su una materia di questo genere, mi pare francamente un gioco che non vale la candela”. “Mi chiedo allora - conclude Riccardi - perché non incidere sulle ferie? Per la crescita ci vuole altro. L'Italia ha bisogno di lavoro e di rimettere in motio l'economia”, perciò “non credo che tutto questo possa trovare soluzione solo abolendo un santo dal calendario”.
Ieri, anche la Cgil aveva espresso la sua contrarietà all'ipotesi dell'accorpamento delle festività. Un'idea che "si muove nella direzione opposta rispetto a quanto sarebbe necessario che il Governo facesse". "Se questo è il modello che Polillo e il governo, qualora facesse sua la proposta, vuole affermare - ha dichiarato il segretario confederale della Cgil, Elena Lattuada - saremmo di fronte ad un modello autoritario ed imposto alle parti, che segnerebbe un’ulteriore regressione democratica”.
Secondo il dirigente sindacale, “per sostenere il lavoro ed i consumi servirebbe una diversa distribuzione del reddito e creare le condizioni di investimento e ripresa produttiva ed economica”. Mentre per sostenere la produttività “bisognerebbe favorire gli investimenti in innovazione e non l’incremento dello sfruttamento del lavoro”.
Lattuada ha sottolineato, inoltre, come “i calendari di ferie ed utilizzo delle festività sono prerogative delle parti sociali nei contratti nazionali e ancor di più nella contrattazione aziendale, anche perché così si risponde alle reali esigenze delle imprese e dei mercati”.