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Marco Magnani è un economista di esperienza internazionale, che vive e opera da trent’anni fra Italia e Stati Uniti, autore per Utet di un saggio dal titolo “Fatti non foste a viver come robot” (pp.272, € 15), nel quale affronta il tema della rivoluzione tecnologica tenendo presenti tre aspetti cruciali della nostra contemporaneità: crescita, lavoro, sostenibilità. Lo abbiamo raggiunto per una conversazione insieme, partendo da un altro titolo pubblicato per lo stesso editore nel 2014, “Sette anni di vacche sobrie”.
“In effetti già in quel libro mi occupavo di mobilità sociale, di quel famoso ascensore che nel nostro Paese non funziona mai, soffermandomi sulla proposta di una scuola obbligatoria e gratutita sino alla maggiore età, posticipando la scelta per gli istituti superiori ai 16 anni, così da coinvolgere direttamente lo studente, e non solo la famiglia. Un ragionamento sul concetto di formazione, che ritorna anche nell’ultimo capitolo di questo nuovo volume”.
Possiamo partire proprio da quanto scrive nelle sue conclusioni? Il libro è uscito da poco, ma la discussione degli esperti su queste si è subito accesa...
In questo libro, la proposta finale si sviluppa in tre punti, che possiamo riassumere così: scuola obbligatoria e gratuita (anche nei suoi materiali didattici); poi, una volta raggiunta la maggiore età, una sorta di “prestito d’onore”, da utilizzare nell’università o in formazione professionale per entrare nel mondo del lavoro; terzo punto, un “capitale di dotazione”, vale a dire un fondo sovrano che produca reddito in attività innovative, pre-distribuito dalla nascita.
Vorrei riflettere su questo passaggio, che è anche il cuore della sua proposta.
Partiamo da una differenza, quella tra pre-distribuzione e re-distribuzione. Quest’ultima contiene un difetto di fondo, il fatto che togliere ad alcuni per dare ad altri crea delle inevitabili tensioni di carattere sociale, con il rischio di disincentivare il lavoro; più in generale, la redistribuzione non funziona come meccanismo di lungo termine, e contempla un carattere divisivo tra le varie categorie di lavoratori. La pre-distribuzione invece comprende un fondo sovrano, che dovrebbe consentire a tutti di remare dalla stessa parte, vedendo con favore il progresso tecnologico, favorendo un meccanismo di ampio respiro e lungo periodo, prevedendo in questo senso un’intesa di carattere internazionale.
Possiamo fare un esempio pratico?
L’idea è quella di dire: siamo tutti azionisti di questa nuova società, che grazie alle nuove tecnologie aumenta la ricchezza. L’esempio pratico potrebbe essere quello di un’azienda che produce pasta, che se un giorno decide di licenziare i suoi operai perché sostituiti dalle macchine, quegli operai restano però azionisti dell’azienda. Questo permetterebbe di intervenire sulla perdita del lavoro da parte dell’essere umano, che deve trovare un sistema di convivenza con l’avanzare incessante e inevitabile della robotica.
In questo modo però il lavoro perde ogni suo valore, tutto quello che ha signifcato almeno per due secoli...
E qui credo si inserisca anche il ruolo di tutela dei lavoratori oggi. Il lavoro è stato il più grande redistributore sociale degli ultimi due secoli, ma sta perdendo questa sua funzione sociale come meccanismo di redistribuzione della ricchezza, e la sua valenza identitaria. Con la maggiore automazione dovuta all’innovazione tecnologica assistiamo alla diminuzione del valore del lavoro, che è sempre meno e sempre più precario, mentre aumenta la ricchezza, una nuova ricchezza suddivisa però tra chi mette il capitale e il consumatore (il prodotto costa sempre meno). Si deve dunque trovare il modo per non fare rimanere il lavoratore stretto in questa morsa, e far arrivare anche a lui una parte di questa nuova ricchezza. Da qui la mia proposta di un capitale di dotazione, da investire in seguito nelle nuove tecnologie.
Dunque come deve essere interpretato il lavoro oggi?
Fino a poco tempo fa si parlava ancora di lavoro, oggi si parla quasi soltanto di “lavori”. Una volta eravamo quello che facevamo, ora non è più così, e le implicazioni sono non soltanto economiche, ma anche umane. In particolare, ad essere travolti da questa innovazione sono i lavori della classe media, compresi i lavori intellettuali, anch’essi minacciati dall’avanzare tecnologico. Ci troviamo di fronte a una piramide dove in cima troneggiano i nuovi mestieri di quella che definisco “oligarchia tecnologica”, mentre la base della piramide è costituita dai servitori personali che lavorano per questa oligarchia, nelle nuove forme di sfruttamento che tutti noi conosciamo. In tutto questo la classe media del lavoro sta scomparendo, spazzata via dalla tecnologia.
Nello scenario descritto, quale dovrebbe essere il ruolo del sindacato?
Il sindacato predilige la tutela dei lavoratori, posizione più che legittima, alla tutela del lavoro. Ma la partita oggi non è provare a rallentare il progresso per salvare alcuni posti di lavoro, perché l’avanzare tecnologico è inarrestabile. Nel libro analizzo alcune proposte del genere, come quella della decrescita, che secondo me hanno dimostrato di non poter funzionare. Bisogna invece cercare di fare in modo che il progresso tecnologico diventi più produttivo per il Paese, utilizzarlo per migliorare la qualità della vita dei lavoratori, anche in tema di sicurezza, un discorso che vale per tutti, non solo per chi ne tutela i diritti. C’è poi il macrotema della sosteniblità, ampiamente approfondito nel volume, intendendo per sostenibilità quella demografica, energetica e ambientale, e nel rapporto tra lavoro e crescenti diseguaglianze. Si devono indirizzare le potenzialità delle nuove tecnologie in questa direzione. In tema sindacale bisogna poi pensare alla casistica dei nuovi lavoratori, in prevalenza autonomi, ma caratterizzati da rapporti continuativi con certe aziende, dunque rinnovarsi da questo punto di osservazione. Infine arriviamo dove siamo partiti, vale a dire gli investimenti necessari nella scuola, la formazione, la formazione, e ancora la formazione, perché nel giro di breve tempo tutti i mestieri saranno trasformati. Già oggi fare l’operaio in una fabbrica avanzata richiede competenze impensabili sino a pochi anni fa.
Ci sono attualmente figure di riferimento a cui fare appello per rendere praticabili le teorie esposte nel libro?
Credo che la sorpresa maggiore per quanto mi riguarda sia arrivata da Papa Francesco. L’enciclica “Laudato sii” contiene una grande intuizione, all’avanguardia da un punto di vista anche economico. Il Papa scrive così: “In una società nella quale ci sono molti scarti, ambientali e non solo, si sviluppa anche una cultura dello scarto”, indicando così scarti ambientali e sociali, individuando un scarso interesse per chi rimane indietro, gli ultimi, i disoccupati, ed evidenziando uno strettissimo collegamento tra ecologia ed economia. Se si vive nella cultura dello scarto, è il terreno più fertile a considerare scarti anche gli esseri umani, le persone emarginate. Per il Papa dunque crescita ed equità devono viaggiare di pari passo, e questo è qualcosa di più della crescita economica, la crescita in equità è più della crescita economica in sé, si accetta l’una purché presupponga l’altra. Ciò ci induce a pensare che il modello capitalista e liberista, se pare impossibile rottamarlo, dobbiamo migliorarlo. Negli ultimi due secoli ha mostrato molte pecche, su tutte quelle riguardanti il mondo del lavoro, ma ha anche dimostrato che, volendo, può essere migliorabile. Davanti al nuovo cambiamento tencologico, che comporta scompensi e diseguaglianze, meglio lavorarci sopra tutti insieme, per aggiustarlo nella maniera dovuta, prima che sia troppo tardi.