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Le vittime sono sempre i più deboli. A essere oggetto di violenze e molestie sono più le donne che gli uomini, più gli stranieri che i lavoratori nativi, più i precari che i dipendenti a tempo indeterminato, più i giovani che i lavoratori esperti. A dirlo è il rapporto “Violence and harassment in European workplaces: extent, impacts and policies” (scarica il pdf), realizzato da Mario Giaccone e Daniele Di Nunzio (Associazione Bruno Trentin) per Eurofound, la Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. La ricerca analizza violenze e molestie sul posto di lavoro in Europa (29 paesi), basandosi su indagini nazionali e sul quinto Rapporto europeo sulle condizioni di lavoro (Ewcs).
Il 14,9 per cento dei lavoratori è stato oggetto di “comportamento sociale negativo”. In generale la violenza fisica è in diminuzione – anche se aumenta la violenza derivante da terzi (come clienti, pazienti, studenti) – mentre persistono tutte le altre forme, come minacce, intimidazioni, bullismo, molestie e attenzioni sessuali indesiderate. A denunciare di più sono i lavoratori degli Stati scandinavi e baltici, dei paesi dell’Europa occidentale e centrale, che si situano al di sopra della media, mentre percentuali minori si riscontrano nei paesi dell’Europa meridionale e in alcuni di quella orientale. Questo, precisa la ricerca, non vuole dire che le molestie siano maggiori in Finlandia che in Italia, ma soltanto che in determinati paesi (quelli appunto del Nord Europa) vi è una maggiore attenzione e sensibilità a questi fenomeni, mentre in altri violenze e molestie non sono considerate un problema importante e vi è comunque una debole consapevolezza del fenomeno.
“L’analisi comparativa dei dati sui problemi delle violenze e delle vessazioni al lavoro è un’impresa difficile e, al tempo stesso, indispensabile”, spiega Daniele Di Nunzio dell’Associazione Trentin: “I luoghi di lavoro possono essere luoghi di conflitto, di umiliazione, di aggressione e spesso le vittime non riescono a fronteggiare queste situazioni, a denunciarle e nemmeno a parlarne”. Le metodologie di rilevazione dei dati sui comportamenti violenti, precisa il curatore della ricerca, sono “diverse in ogni Stato e ormai esistono numerose indagini quantitative e qualitative. Al di là dei singoli dati nazionali, le analisi mostrano che l’emersione di questi fenomeni è legata alla cultura nazionale, alla capacità delle istituzioni e delle parti sociali di programmare strategie di lungo termine, al grado di conflitto che i lavoratori sperimentano quotidianamente nei luoghi di lavoro, alla consapevolezza che hanno dei propri diritti, alla fiducia verso la possibilità di trovare una soluzione se denunciano una certa condizione e, dunque, al grado di ricatto cui sono sottoposti”.
Le donne generalmente riferiscono di aver sperimentato violenze e molestie più degli uomini: 15,1 contro 13,3 per cento, una differenza in larga parte spiegata dai livelli più elevati delle donne di esposizione alle molestie sessuali. D’altro canto, invece, gli uomini mostrano livelli più elevati di esposizione alla violenza fisica rispetto alle donne. Livelli più elevati denunciano anche i lavoratori stranieri rispetto ai nativi, oppure i lavoratori con meno di 35 anni (16,1 per cento delle denunce) rispetto a quelli di altri gruppi di età (13,8 per cento di quelli tra 35-49 anni, 12,2 per cento degli over 50). I lavoratori con contratti a tempo indeterminato sono meno soggetti a comportamenti sociali negativi (14,5 per cento) rispetto a quelli con contratto a tempo determinato (17,1), ai lavoratori temporanei (21,7) e agli apprendisti (22). Infine, la quota di lavoratori con un’istruzione più bassa è oggetto di violenze e molestie più dei lavoratori con livelli scolastici elevati.
La ricerca evidenzia come, al di là dei comportamenti dei singoli individui, alcune condizioni di lavoro possono favorire il verificarsi di violenze. Esse sono l’alta intensità del lavoro, l’insicurezza del proprio impiego, la precarizzazione del lavoro, l’inconsistenza dei manager, il cambio di lavoro in seguito alla perdita del precedente a causa della crisi economica, i cambiamenti organizzativi, l’introduzione di nuovi processi o tecnologie, le ristrutturazioni aziendali. Riguardo i settori, a essere oggetto di comportamenti sociali negativi sono soprattutto i lavoratori al contatto col pubblico: gli addetti alla sanità e all’assistenza sociale, ai trasporti e allo stoccaggio, ai servizi di ristorazione e alloggio, alla pubblica amministrazione, all’educazione e istruzione.
Ma cosa fare per impedire il verificarsi di questi fenomeni? A livello nazionale, riprende Di Nunzio, una “definizione legislativa precisa di cosa sia una violenza sul lavoro – o, meglio, i vari tipi di violenza – favorisce l’emersione di questi problemi, la prevenzione e la denuncia. È sicuramente difficile trovare definizioni legislative univoche per questi problemi, ma un elevato grado di precisione e consenso su cosa sia un comportamento violento aiuta sia a livello giuridico sia nella prevenzione. A livello nazionale, dunque, è importante che le parti istituzionali e sociali prestino attenzione a questi temi, elaborando una strategia di lungo termine attraverso un forte dialogo sociale”. A livello aziendale, invece, è altrettanto importante “avere un’attenzione costante a questi problemi e un approccio condiviso tra la parte datoriale e i sindacati. In particolare, aiutano a fare emergere il fenomeno la presenza di procedure definite per la denuncia e la presenza di organismi cui rivolgersi per confrontarsi e avere un aiuto”.
Ma la maggior parte dei paesi europei è indietro rispetto agli interventi da attuare. La ricerca classifica i paesi in quattro gruppi. Il primo gruppo (Belgio, Danimarca, Finlandia, Irlanda, Olanda, Norvegia, Svezia, Regno Unito) sono “paesi – illustra Di Nunzio – in cui l’attenzione a questi problemi è elevata, e sono predisposti interventi con una strategia di lungo termine. Un secondo gruppo, che comprende Francia, Germania, Lussemburgo e, in misura minore, Austria, sono paesi in cui questi problemi hanno ricevuto un’attenzione crescente negli ultimi anni, così come stanno aumentando le politiche di intervento”.
L’Italia, assieme ad altri nove paesi (Bulgaria, Croazia, Cipro, Grecia, Ungheria, Malta, Polonia, Portogallo, Romania) fa parte del terzo gruppo: “paesi in cui questi problemi non sono una priorità, la consapevolezza è bassa o in leggera crescita, ma ancora non ci sono politiche sistemiche di intervento. Nel nostro paese, in particolare, pur essendoci molte esperienze locali e settoriali interessanti, c’è ancora molto da fare a livello sia nazionale sia aziendale per fronteggiare al meglio questi problemi”. L’ultimo gruppo (Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Slovenia), conclude il curatore della ricerca, è composto di quei “paesi in cui l’attenzione è bassa e le politiche di intervento sono scarse o inesistenti”.