Il Patto per il lavoro della regione Emilia Romagna è un documento di grande interesse, perché delinea il quadro della strategia regionale finalizzata a far crescere l’occupazione e perché introduce alcuni elementi di novità nella programmazione delle risorse e nella finalizzazione delle stesse. I punti qualificanti sono il fatto che si inseriscono nello stesso disegno di coordinamento degli interventi azioni che riguardano il sistema produttivo, quello dei servizi sociosanitari (quindi il welfare in accezione estesa) e le infrastrutture che non erano mai fino ad ora state esplicitamente contemplate in un contesto integrato; ci sarà inoltre un’agenzia regionale dedicata al tema del lavoro che integrerà le politiche di investimento e cercherà di dare efficienza ed efficacia al sistema delle politiche per l’occupazione, e ci sarà anche un sistema di monitoraggio specifico per valutare gli effetti reali di questo insieme di azioni e decisioni.

Lo sforzo per riprendere un percorso di crescita dopo 7 anni di politiche difensive è apprezzabile. La situazione si mantiene difficile e per certi aspetti drammatica. Il tracollo degli investimenti (-5 miliardi all’anno) e l’incremento della disoccupazione giovanile (sono 112.000 i NEET accertati), pur in presenza di una politica di sviluppo centrata sulla qualità, sulla professionalizzazione, l’alta competenza finalizzata ad introdurre sempre maggiore valore aggiunto nei processi produttivi, dimostra, prima ancora delle necessità di azione, l’insufficienza degli sforzi compiuti, per quanto sacrosanti e assolutamente necessari. Non è del tutto vero che l’Emilia Romagna ha subito meno rispetto alle altre regioni gli effetti della crisi, anzi la convergenza nella negatività è da considerarsi un elemento del tutto nuovo nella storia della nostra economia.

Appare evidente che oggi sia necessario mettere in campo uno sforzo supplementare, di risorse e di idee. La strategia proposta si compone di investimenti infrastrutturali per un ammontare complessivo di 7 miliardi di euro, interventi per la ricostruzione post sisma per un valore residuo di circa 5 miliardi di euro, di quasi 900 milioni di interventi a sostegno della competitività del sistema produttivo nell’ambito della Smart Specialization Strategy già delineata l’anno passato ma la cui attuazione prende l’avvio in questi giorni, altri 800 milioni sono destinati alle politiche di sostegno all’agricoltura e alle aree rurali, 800 milioni sono dedicati alla manutenzione del territorio e circa 500 milioni sono destinati ad altre iniziative e interventi in ambito di formazione, welfare, piano casa, edilizia scolastica e rigenerazione urbana.

Nel complesso si rileva che la Smart Specialization Strategy è in grande continuità con le azioni realizzate nel passato, non si discosta nelle logiche e nelle modalità di azione, per cui ci si aspetta un impatto di efficacia limitata, considerando che anche le risorse sono inferiori a quelle disponibili nella programmazione precedente. Gli interventi in favore della manifattura, secondo lo schema delle filiere che tengono assieme la ricerca e la produzione in un tentativo sistemico di coniugare sapere, competenza e valore aggiunto hanno un valore molto importante nel percorso di sviluppo della competizione dei prossimi anni e quindi anche in chiave di attrazione degli investimenti sono un fattore strategico, tuttavia andrebbero affiancati da interventi di riqualificazione del sistema produttivo e dei servizi alle imprese che invece rimangono del tutto avulsi dalle logiche di intervento delineate.

Le risorse per la ricostruzione post sisma continuano ad affluire, tuttavia sono difficilmente inseribili all’interno di un percorso di strategia di sviluppo: la ricostruzione delle attività produttive comporta certamente un ammodernamento delle strutture e quindi un miglioramento delle condizioni di competitività, tuttavia azioni di questo tipo sono limitate alle ricostruzioni di impianti ex novo o a profonde ristrutturazioni, invece una parte consistente delle risorse vanno anche a sanare perdite in conto capitale subite dalle imprese per effetto dei fermi di produzione e di distruzione delle scorte e questo non incentiva né produzione aggiuntiva, né tantomeno occupazione ulteriore; la ricostruzione delle attività private non consente invece una programmazione precisa e soprattutto riguarda attività di edilizia il cui effetto occupazionale ed economico è del tutto da definire e quantificare, poiché pur essendo i lavori da svolgere su un territorio definito, è probabile che le aziende coinvolte provengano in buona parte da fuori regione, visto che nel conteso complessivo della crisi il settore edilizio regionale ha subito un forte e decisivo ridimensionamento. In ogni caso va tenuto in conto il fatto che le ingenti risorse disponibili per il territorio hanno una forte localizzazione, e si prestano poco a diffondere gli effetti ad un sistema produttivo più ampio rispetto al luogo in cui vengono realizzati i lavori. Se un terzo delle risorse destinate al programma di sviluppo sono destinate ad un territorio specifico e limitato, gli effetti complessivi sull’economia saranno di entità ridotta.

Le risorse destinate all’agricoltura continuano a promuovere il riequilibrio territoriale e le produzioni di qualità
secondo uno schema ormai consolidato e di cui il settore non può fare a meno, pertanto le linee di intervento si muoveranno lungo gli schemi già intrapresi del ricambio generazionale e della promozione delle specialità la cui efficacia è nota e consente di mantenere i livelli di occupazionali e di produzione attualmente conseguiti. Il tema delle infrastrutture rappresenta una significativa novità. È la prima volta che entra esplicitamente nell’ambito delle strategie per lo sviluppo e si può considerare un motore effettivo di impulso all’attività economica e alle prospettive occupazionali del territorio. Su questo tema vanno però distinti due momenti che rappresentano la effettiva duplice natura degli interventi infrastrutturali.

1) L’effetto occupazionale immediato è connesso alle possibilità di creare occupazione
nella fase di realizzazione delle opere e questo per l’economia della regione corrisponde ad individuare imprese regionali che possono beneficiare di un aumento di domanda consistente per un periodo di tempo che può essere compreso fra i 3 e i 7 anni. L’impoverimento della struttura produttiva regionale nel settore dei lavori civili è stato molto marcato, tanto che alcune delle imprese che potevano vantare una leadership nazionale e anche internazionale hanno sperimentato crisi fatali. Riproporre imprese per la realizzazione delle opere sarà molto più difficile per l’economia regionale, pertanto gli effetti occupazionali ed economici saranno limitati. 2) Gli effetti più consistenti sono a lungo termine, rispetto al quale le infrastrutture sono elemento di efficienza produttiva e sistemica, in grado di rilanciare la competitività generale abbattendo di circa il 3-4% i costi logistici e operativi attualmente sopportati. In questo senso l’incremento di valore aggiunto che si verrebbe a determinare può essere calcolato in circa 5 miliardi all’anno, che il sistema economico potrebbe giocarsi per incrementare la propria competitività e far aumentare le proprie quote di mercato. Il valore effettivo a lungo termine delle opere potrebbe quindi essere stimato in circa 3 miliardi all’anno che corrisponderebbero ad un incremento di occupazione di circa 11.000 unità. Si tratta di un risultato che si potrà conseguire solo dopo che le opere saranno realizzate e quindi non prima della fine del periodo di programmazione.

Molto ci si aspetta dall’introduzione del principio della manutenzione del territorio
che inserisce le risorse finanziarie fin qui utilizzate per fronteggiare le emergenze e le calamità naturali, che negli ultimi anni hanno falcidiato buona parte del territorio regionale, nell’ambito di un processo strategico di pianificazione e di interventi di prevenzione. Questo ribaltamento dell’impostazione tradizionale ha la possibilità di rafforzare interi comparti di attività, investendo su competenze e tecnologie e diffondendo la cultura della prevenzione del rischio in tutti gli ambiti dell’attività economica regionale. Gli 825 milioni messi in campo hanno un potenziale occupazionale molto significativo perché agiscono in un settore in cui la domanda è elevata e in forte crescita, le potenzialità di investimento sono consistenti e finora l’offerta è molto debole. In più bisogna aggiungere che su questo settore non esiste al momento una concorrenza particolarmente agguerrita, perché la manutenzione del territorio non è propriamente una specializzazione nazionale. Quindi si possono intravvedere ampi spazi di crescita per imprese che abbiano la capacità di cogliere questa importante occasione.

Alla luce di queste considerazioni possiamo ritenere che la strategia delineata sia sufficiente e adeguata? Si tratta sicuramente di una strategia adeguata in grado di produrre circa 80.000 posti di lavoro. Naturalmente non sono i 120.000 posti bruciati nel corso della crisi, ma possiamo ritenere che ritornare alle medesime condizioni occupazionali precedenti la crisi comporta uno sforzo di dimensioni colossali. L’Ocse ha recentemente stimato che l’economia italiana impiegherà circa 20 anni per conseguire un obiettivo di questo tipo, per cui se consideriamo che l’economia emiliano romagnola ha qualche vantaggio competitivo rispetto alla media nazionale possiamo stimare che comunque un tempo di circa 15 anni bisognerebbe metterlo in conto per raggiungere il risultato.

Ma posto che la ricostituzione di 80.000 posti di lavoro in cinque anni è un risultato eccezionale
, a quali condizioni sarebbe possibile? Il valore delle risorse messe in campo è nelle condizioni di generare da solo circa 55.000 posti di lavoro. Tuttavia, le risorse stanziate hanno un effetto moltiplicativo sugli investimenti. Infatti i contributi pubblici agli investimenti privati coprono una parte dell’investimento complessivo, pertanto il valore complessivo delle risorse investite è da ritenersi superiore a quello dichiarato. Se consideriamo che tale moltiplicatore sia 1,2, che significa che ad ogni milione di euro di risorse pubbliche si aggiungono 200 mila euro di risorse private, allora il potere occupazionale dell’intervento è pari a 63.000 posti di lavoro, mentre se assumiamo un moltiplicatore di 1.8 allora l’effetto occupazionale arriverebbe a 98.000 posti. Nessuno dei due scenari è effettivamente realistico perché il primo corrisponde all’efficacia registrata nel periodo peggiore della crisi, (fra il 2009 e il 2010), mentre il secondo corrisponde ad una modalità in cui tutte le risorse messe in campo si configurano come un contributo pubblico agli investimenti del settore privato (mentre sappiamo che una buona parte sono semplicemente incremento di domanda per le imprese). Supponiamo quindi che il moltiplicatore si collochi a 1,5 e le risorse complessivamente investite siano 24,5 miliardi in 5 anni che porterebbero gli investimenti medi annui regionali al livello di 27 miliardi l’anno: è esattamente il livello del periodo precedente la crisi.

È un risultato molto ambizioso, sia in termini di investimenti, sia in termini di occupazione. Probabilmente ci si fermerà a livelli inferiori. Al di là delle questioni quantitative, ci sono però da considerare anche alcune questioni legate alla tipologia di lavoro che sarebbe da conseguire. In questo lo spazio per le politiche attive per il lavoro sono poco strutturate. L’Agenzia regionale per il lavoro è un’idea intrigante ma prefigura un mercato del lavoro omogeneo a livello regionale, con competenze standardizzate e una mobilità su scala regionale che non corrisponde alla realtà attuale, né alle condizioni di prospettiva. Il mercato del lavoro sarà sempre più frammentato e determinato dalle specializzazioni territoriali, per cui l’ulteriore allontanamento dei servizi all’impiego rispetto alle effettive necessità di occupazione rendono sempre meno efficace l’attività di collocamento e di riqualificazione.

Per i giovani si fa affidamento essenzialmente sul programma Youth Guaranty: è un po’ poco per incontrare i 112.000 NEET che per definizione non cercano lavoro. In questo caso è necessario predisporre azioni di sollecitazione, ascolto e orientamento per i giovani che nel programma indicato non compaiono. L’equilibrio territoriale non può essere raggiunto da un piano di intervento e distribuzione delle risorse finanziarie determinato per il 33% dalle risorse che vanno nell’area del sisma, e per un ulteriore 45% nelle aree toccate dalle infrastrutture: il quadro di interventi è squilibrato sia in termini di tipologie di specializzazioni occupazionali, sia in termini di localizzazione degli interventi. Ecco: un’azione più efficace dal punto di vista del lavoro richiederebbe di mettere a punto anche azioni di politica attiva, perché sappiamo che nel tempo il costo per la costruzione di un nuovo posto di lavoro tenderà a crescere e saranno quindi necessari maggiori sforzi collettivi per far nascere e stabilizzare una buona occupazione.

* economista, collaboratore Ires Emilia Romagna