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"La situazione dei poliziotti penitenziari negli istituti del nostro Paese è molto problematica: vivono in un contesto assai difficile, fanno un lavoro, già di suo, enormemente delicato, perché garantire il reinserimento sociale dei detenuti non è una cosa semplice, e considerando i tagli ci sono stati negli ultimi anni, rispetto alle risorse economiche investite in questo settore, la cosa è ancora più complicata". Così Massimiliano Prestini, coordinatore nazionale della polizia penitenziaria della Funzione pubblica Cgil, intervistato oggi a Lavoro pubblico, rubrica di RadioArticolo1.
“A livello nazionale – afferma il sindacalista –, la pianta organica della polizia penitenziaria prevista è di 45.300 unità. Di questi, attualmente ne sono in forze 38.300, dunque, c'è una carenza di circa 7.000 unità, destinata però ad aumentare, perché ogni anno ,tra pensionamenti e persone che vengono riformate, molte per motivi di stress, abbiamo 1.400 uscite contro poco più di 500 assunzioni. Dobbiamo poi aggiungere le strutture fatiscenti di molti istituti, per la cui messa a norma servirebbero almeno 40 milioni l'anno, mentre lo stanziamento attuale non arriva a quattro. Ogni anno, quindi, la situazione peggiora”.
“Sul territorio, i numeri appaiono ancora più incredibili – continua il dirigente sindacale –. A Rebibbia, dove ci sono 1.300 detenuti contro quasi mille agenti, che in realtà sono di meno, perchè 180 persone risultano in uscita o distaccate in uffici a fare compiti che non dovrebbero spettare alla polizia penitenziaria, la cifra disponibile è di 24.000 euro annui, che probabilmente non basterebbe neanche per la manutenzione di un condominio. Nell’enorme carcere romano, se ci sono delle infiltrazioni d'acqua non vengono riparate, la muffa è ovunque, l'automazione praticamente non esiste, in quanto si lavora come trent'anni fa: si aprono e chiudono i cancelli con le chiavi, e immaginate quanto potrebbe aiutare l'elettronica, rispetto al risparmio di personale. Altro problema, oggi si lavora con un nuovo tipo di vigilanza che chiamano dinamica, che dovrebbe prevedere sostanzialmente una pattuglia di uomini che girano all'interno dell'istituto e l'apertura mattutina delle celle, con detenuti fuori per quasi tutta la giornata e che rientrano in cella solo per dormire. In una situazione del genere, pensate quanto potrebbero servire delle telecamere, che consentirebbero di controllare quello che succede, ma, ahimè, degli investimenti promessi non si è visto nulla. Di conseguenza, per mancanza di personale e di nuove tecnologie, i detenuti, anzichè lavorare, oziano, e così è più difficile reinserirli dal punto di vista sociale”.
“Perché le cose cambino, servono innanzitutto risorse, per assumere personale, ristrutturare gli istituti e utilizzare nuove tecnologie. Nel contempo, l'altra via di uscita è investire nell'esecuzione penale esterna, lasciando in carcere solo i detenuti socialmente pericolosi. Tutti gli altri devono essere affidati a misure alternative, come la messa alla prova, ossia, nei confronti del detenuto, lo Stato rinuncia al suo potere sancitorio, utilizzando il potere risarcitorio: in tal modo, colui che ha commesso un reato di lieve entità, deve risarcire la società, ma anziché finire in carcere, va a fare dei lavori socialmente utili. Per fare questo, dobbiamo sviluppare un’esecuzione penale esterna, che verrà gestita dalla giustizia minorile, perché per i minori il tentativo è già stato fatto in passato, con ottimi risultati. Ovviamente, dobbiamo anche formare personale ad hoc che acquisisca i nuovi compiti, fermo restando che prima va assunto un numero adeguato di poliziotti penitenziari per gestire l’ordinaria amministrazione. Insomma, i progetti per migliorare le cose ci sono, ma vanno finanziati”, conclude l’esponente Fp.